La versione di Chet Baker
Il mito di Chet Baker rivive nella musica di Paolo Fresu e nello spettacolo di Leo Muscato e Laura Perini, al Parco della Musica (e in tour)
Se la luce del sole potesse illuminare nuovamente il volto di Chet Baker, si soffermerebbe ancora una volta sulle sue rughe pronunciate, ridisegnando le mascelle spigolose, i contorni sfumati, gli zigomi risucchiati dalla violenza di un tempo distruttivo. Il ricordo di quella testa china, in simbiosi con la sua tromba, e di una mente fragile che si fortificava solo nelle immersioni con una musica pulita, viva, dalla logica rigorosa, rivive nello spettacolo Tempo di Chet. La versione di Chet Baker. Scritto da Leo Muscato (anche regista dello spettacolo) e Laura Perini, prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano e accompagnato dalla tromba e dal flicorno di Paolo Fresu, dal pianoforte di Dino Rubino e dal contrabbasso di Marco Bardoscia.
Lo spettacolo è andato in scena all’Auditorium Parco della Musica dal 16 al 21 gennaio, e sarà a Cremona (23 gennaio), Chiasso (25 gennaio), Torino (dal 28 gennaio al 2 febbraio), Perugia (dal 4 al 7 febbraio), Pavullo (11 febbraio) e Russi (12 febbraio).
C’è la memoria che resiste su quella poltrona rossa al lato della scena calda, illuminata da insegne che richiamano le atmosfere americane degli anni Cinquanta (opera del bravo Andrea Belli), ma c’è anche il senso profondo della fine. Al centro un bancone da bar, attorno al quale Chet Baker, interpretato da Alessandro Averone, si muove dimesso, nel suo inferno. Il piano temporale è sfumato: siamo nello spazio del ricordo, in cui il passato e il presente si incontrano per fare i conti. Pian piano il palco si popola di tutti quei personaggi che hanno fatto parte della sua vita (gli attori Paolo Li Volsi, Rufin Doh, Debora Mancini, Daniele Marmi, Mauro Parrinello, Graziano Piazza, Laura Pozone), e ognuno di loro, in confidenze solitarie o in dialoghi accesi con Baker, riavvolge i fili della storia, spinti dall’urgenza di aggredire la verità. Il sipario si apre sulle radici familiari, con le voci di un padre sconfitto dalla vita, dal crollo del ’29, annegato nella frustrazione e nell’alcool e di una madre ripiegata sulla sua debolezza. Si respira la brezza del mare, delle coste californiane, che Chet sceglie per abbandonare tutto, con il jazz nella mente, come unica possibilità di salvezza. Si continua con l’audizione del 1952 con Charlie Parker, quella sera in cui Chesney Henry "Chet" Baker, facendosi largo a spintoni nell’oscurità del Tiffany Club, intravide “Bird” che volava su un blues. Dal rapporto con Gerry Mulligan, Baker si ritrova a dover affrontare la verità della notte del ‘55, durante la tournée con il suo quartetto in Europa, quando il suo pianista Dick Twardzick muore per un’overdose. Il confronto con i genitori di Twardzick è l’unico momento in cui la sua coscienza debole sembra volergli salvare la vita, ma alla fine anch’essa si arrende.
Neanche il trasferimento in Europa, l’arrivo in Italia, l’amore di Carol, lo allontanano dal richiamo dell’eroina. Sfumano così i suoi progetti e persino quel sogno del suo “Chet Baker’s Club” a Milano. Gli innumerevoli arresti, i processi e poi l’estradizione dall’Europa, lo costringono a tornare in America. Arrivano tutte insieme quelle voci che animano un coro sfaccettato e in ognuna di loro c’è la cadenza della morte, che lo ha sempre spiato: nelle retrovie dei club, tra le strade di New York, nelle prigioni, osservandolo strisciare sui muri, o addormentarsi sul palco, che ormai non lo proteggeva più.
Il mito di Chet Baker rivive qui in un’analisi attenta dei fatti, un’operazione drammaturgica e musicale brillante che riaccende la luce sull’uomo, sul musicista per il quale “improvvisare significava confondersi con il mondo”. Forse anche scomparire, ritrovando un’antica alleanza con se stesso.
Se il teatro ci offre la sua versione di Chet, a partire da un coro multiforme, carico di pathos e di tante domande, la musica lo fa grazie al progetto discografico Tempo di Chet (Tŭk Music, 2018) di Paolo Fresu, Dino Rubino e Marco Bardoscia, che da una pedana al centro della scena ci riportano nel suo mondo. Uno scambio incessante tra suono e parola, a volte esuberante, didascalico (quando è necessario), altre più riservato. Ricorda quel lirismo perfetto, quell’intensità malinconica e quel dolore che nella sua tromba prendeva direzioni inaspettate, trasformandosi in un soffiato raro, teso verso la vita. Negli standard cari al trombettista, da “My Funny Valentine”, a “Everything Happens to Me”, fino a “When I Fall in Love”, ritroviamo la perfezione della semplicità melodica, i fraseggi unici e quel suono inconfondibile nella storia del jazz. Nelle composizioni originali di Paolo Fresu c’è l’omaggio al trombettista: si ritrova quell’atmosfera da cool jazz, con la sua architettura interna composta, in equilibrio con il contrabbasso di Bardoscia e il pianoforte di Rubino (“Hotel universo”, “Hermanosa Beach”, “The Beatniks”). Con “Chat with Chet” (composto da Rubino) tutto si apre verso un ritmo guizzante, leggero e, dopo i giri pirotecnici dell’assolo, si riavvolge sulla struttura armonica originaria, quella dello standard “There Will Never Be Another You”, su cui tutto si regge. Con “Palfium” e “Jetrium” siamo nel mondo dei farmaci analgesici oppioidi, di cui Baker faceva uso. Entrambi i brani sono stati pre-registrati con la batteria spazzolata di Stefano Bagnoli. Se nel primo la tromba di Fresu ha uno spirito inquisitorio, passeggia verso spazi ignoti, pedinata dal contrabbasso e dal pianoforte (che hanno lo stesso carattere), nel secondo tutto diviene più rilassato: il ritmo disteso, i colori dei suoni più caldi.
Alla fine arriva l’ultima versione, quella di Chet. Sul palco, attori e musicisti, restano in silenzio. Dalla stanzetta blu si espande la sua voce a cappella e, anche se per un solo momento, Chet Baker torna da noi. Sembra che sia lì, con la pipa in mano e la piccola testa della sua donna sulle ginocchia. Il suo timbro innocente, puro, eterno in “Blue Room” (registrazione del 1953, Los Angeles) è l’ultimo saluto. È come se il suo volto apparisse di nuovo, infantile e sincero, finalmente in pace. A noi, però, resta il ricordo di quegli occhi stanchi, schivi, fissi sul suo mondo e di quelle rughe che disegnavano ali sottili, quelle stesse ali che gli fecero spiccare il volo, da una finestra del Prins Henrik Hotel di Amsterdam, il 13 maggio del 1988.
Uno sguardo che ci lascia, ancora una volta, inconsapevoli di fronte alla tragica verità.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
A ParmaJazz Frontiere il rodato duo fra il sax Evan Parker e l'elettronica di Walter Prati
Il Bobo Stenson Trio ha inaugurato con successo la XXIX edizione del festival ParmaJazz Frontiere
Si chiude la stagione di Lupo 340 al Lido di Savio di Ravenna, in attesa di Area Sismica