La psicomagia di Tigran Hamasyan
Il vento dell’Armenia nella musica di Tigran Hamasyan, per il Roma Jazz Festival
Se mi avessero chiesto, dopo il concerto di Tigran Hamasyan, chi ero, la mia risposta sarebbe stata, riprendendo Alejandro Jodorowsky: «Sono uno specchio in frantumi. Non potevo scrivere, né pensare, né sentire». Ho ricevuto simultaneamente grandi visioni, predizioni illuminanti, conferme sonore intime, immagini di memorie tese, depositarie di una poesia unica. Nessun intellettualismo nella sua forza melodica, piuttosto autenticità nel sottotesto visivo e narrativo delle sue opere. È accaduta una psicomagia durante il live (sold out) di Tigran Hamasyan all’Auditorium Parco della Musica (per il Roma Jazz Festival), il 13 novembre. Un concerto in piano solo che ha assunto sin da subito l’aspetto di una rivelazione trascendentale, piena di ricordi, d’impeto, di bellezza rara.
Dal palco arrivano folate di vento armene, si sente la rigidità delle barriere della fine degli anni Ottanta, prima di un’indipendenza solo immaginata e arrivata troppo tardi, la memoria di un genocidio dimenticato. Si materializzano le macerie sparse nella terra fredda sovietica ed elevandosi, lentamente, formano immagini storiche. Grazie ai genitori amanti della musica e allo zio (il suo mentore) appassionato di jazz, Tigran Hamasyan (nato nel 1987 a Gyumri) si avvicina alla musica all’età di tre anni. Trasferitosi a Los Angeles, prima dell’indipendenza dell’Armenia (1991), comincia ad esibirsi già all’età di 11 anni, a 18 vince il primo premio al Montreux Jazz Festival e, tre anni più tardi, il prestigioso premio Thelonious Monk a New York (ricevendolo da Herbie Hancock).
Nelle composizioni del pianista armeno non ci sono compromessi, non esistono artifici, o tecnicismi perfetti abbandonati nell’aria per mero piacere estetico. Quello che c’è è solo quello che esiste nella sua realtà. Un mondo padroneggiato da un unico credo: «Quando suoni, suoni di fronte a Dio, quindi devi essere sincero con la tua creazione, con quello che presenti all’ascoltatore». Ed è in nome di questa fede assoluta che Tigran Hamasyan traduce la sua idea di composizione in un atto d’amore e di profondo rispetto nei confronti della musica.
Con “Fides Tua” (An Ancient Observer, Nonesuch 2017), all’inizio della performance, ci fa entrare in silenzio nel suo tempio sacro, in cui è necessario purificarsi, come in un rito propiziatorio. Le incrostazioni della realtà, in contatto con il suo tocco unico e ricercato, pian piano si sciolgono: le nostre mani si congiungono e i nostri occhi fissi su di lui cominciano a creare un nuovo mondo. Il suo suono ha un corpo imponente, sacro, mai oltraggioso. Come in “Leninagone”, dedicato ai sopravvissuti del terribile terremoto del 1988 che colpì la sua città natale, quando s’incunea nelle vite degli altri, mentre la voce di Hamasyan accenna la sua compassione, con vocalizzi flebili e tormentati, come se tendessero alla parola, ma non riuscissero mai a raggiungerla. Questo suono cammina verso le vette alte del monte Aragatz (“Aragatz” tratta dall’EP For Gyumri, Nonesuch 2018), ricalcando le sue altitudini attraverso la notazione.
Negli andamenti cromatici, negli schizzi sulla tastiera, nelle appoggiature cortesi o nel suo canto solenne, c’è lo spirito del suo popolo, ci sono le ricerche del prete Komitas Vardapet, musicologo e grande viaggiatore, il cui sogno era far conoscere le musiche armene, con le sue numerose trascrizioni, all’Europa. Tigran Hamasyan è stato uno dei pochi musicisti ad afferrare quest’eredità, che è anche la sua. L’ha fatta propria nell’uso della lingua che riemerge in alcuni brani, nella connessione con la musica colta, con architetture classiche, o con improvvisazioni virtuosistiche jazz, che sembrano raptus pieni di luce. La sua creatività non ha gravità e, in quest’assenza affascinante, il pianista fa incontrare, generi apparentemente lontani, come l’hip hop, la musica elettronica, il folklore armeno, la musica classica e l’arte del fischio melodico. Pensiamo al brano “Markos and Markos”, agli accordi strozzati, ma sicuri, della mano sinistra, congiunti al lirismo della mano destra, ad un ritmo fresco e a quella melodia impalpabile.
La sua libertà eclettica richiama certe atmosfere norvegesi di Jan Garbarek, o talvolta tagli musicali metallici, industriali, dalle tinte berlinesi degli anni Ottanta. Blocca il suono, percuotendo le corde interne del pianoforte e della nostra sensibilità. Gioca con i suoni, con le loro altezze, sforzando i ritmi, sintetizzando l’universo emotivo che lo circonda. Nella sperimentazione pura, sfregiato da graffi elettronici, spalanca le porte della vita e la osserva mentre attende la morte. Fino alle ultime note, lasciate sole a vagare nel buio, prima che arrivino in soccorso accordi laceranti, profondi come squarci. S’inchina davanti al suo strumento, lo ringrazia, dimostrandogli profonda gratitudine e amore. Non capiremo mai i loro colloqui privati, ed è giusto così, forse ne intuiremo solo la loro potenza, la loro magia. Tigran Hamasyan ci ha aperto le porte del suo mondo e, quando tutto finisce, io non voglio più tornare indietro.
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