La casa degli specchi di Tomas Fujiwara
Il Triple Double del batterista americano, con Taylor Ho Bynum e Mary Halvorson, sul palco di Area Sismica
Area Sismica nella sua severa struttura, con quel suo rosso coinvolgente, anche come collocazione territoriale (oltre che culturale) potrebbe rappresentare, disegnare un confine, quella sottile linea d’ombra tra mondi contigui ma anche indefinibili, misteriosi. Come lo sono i suoni che lì si ascoltano, si godono, a volte si subiscono. Quella traccia imperfetta solcata, cavalcata da musiche extraordinarie, esaltanti, complesse che ti rimangono dentro come rovello esistenziale, riflessione.
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Lì, tra le nebbie della campagna forlivese, passano artisti da tutto il mondo a testimoniare lo stato della ricerca sonora più avanzata, rischiosa e radicale. Un’arte contemporanea che della contemporaneità subisce, assorbe nevrosi e contraddizioni, ma ne riflette anche le potenzialità nel saper guardare avanti, nell’anticipare tendenze, visioni e sogni.
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Il progetto Triple Double del batterista Tomas Fujiwara funziona come una luminosa casa degli specchi. Due batterie, due chitarre, due trombe. Oltre a un’alta e fascinosa idea di collettivo tellurico su poche tracce scritte, qualche unisono, spalmata su costanti ambienti sonori saturi e densi, gli strumenti si scambiano ruoli, compiti, si guardano, si scontrano, dialogano in una polifonia dove una frizzante energia mai intacca la travolgente circolazione di idee e invenzioni. Una regia, quella di Fujiwara, sobria che punta soprattutto a delineare le condizioni che permettano ai compagni di viaggio di esprimere appieno la loro creatività, le loro trasgressioni.
La chitarra acustica amplificata di Mary Halvorson e quella elettrica di Rafiq Bhatia alle estremità del palco garantiscono un substrato diversificato negli accenti, nei timbri, un intreccio che mantiene la musica magicamente sospesa. Anche un ruolo ritmico marcato, soprattutto Bhatia che spesso usa lo strumento come un basso dalle venature scurissime. A rotazione emergono fraseggi astratti e frastagliati di notevole impatto (Halvorson, che strega sempre con il suo rigore creativo) e la ricerca di suoni distorti, lunghe linee melodiche spezzate e contorte (Bhatia, una vera sorpresa).
Taylor Ho Bynum lo conosciamo bene, con la sua cornetta, con cappello o senza, riesce sempre a trovare e esporre un linguaggio estremo ed esplosivo mai fine a sé stesso sempre coerente con il contesto, in una estetica che può andare da gioie neworleansiane a libertà senza confini. È la punta di diamante del Triple Double. Come contraltare, probabilmente un po' oscurato dall’esuberanza di chi gli sta accanto, la tromba di Dave Ballou si muove più defilata, più morbida e riflessiva in un contrasto che però funziona alla grande. Fujiwara è affiancato dall’altrettanto scintillante batteria di Gerald Cleaver, due maestri. Sorprendentemente proprio qui potrebbero emergere gli unici dubbi della serata. Il loro lavoro è eccellente, un complesso tappeto percussivo, ricchissimo di accenti, break, sontuoso uso dei rullanti, sofisticate soluzioni sui piatti, quasi silenzi. La sensazione è però che ciclicamente si sovrappongano con le stesse figurazioni, squilibrando la logica fondante della formazione, della casa degli specchi.
In Triple Double riflettono, si ampliano le ricerche, le strade aperte, tra Chicago e New York, da Braxton, Berne, Zorn, Mitchell, Threadgill… Materiali usati non come formule date ma elementi malleabili di un laboratorio infinito, sempre aperto a rielaborare, contraddirsi. Musicisti che salvaguardano talento e visioni radicali messe al servizio di un’idea collettiva che idealmente traccia un filo rosso con la tradizione, nella prospettiva di una musica che ci racconti la complessità dell’oggi con la ricchezza, le memorie del passato.
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