Jesi riscopre La Vestale

Protagonista Carmela Remigio

La Vestale (Foto Stefano Binci)
La Vestale (Foto Stefano Binci)
Recensione
classica
Teatro Pergolesi, Jesi
La Vestale
20 Ottobre 2024

Per i duecentocinquant’anni dalla nascita di Gaspare Spontini la Fondazione Pergolesi Spontini non poteva non inaugurare la stagione lirica  con l’opera di maggior successo del compositore di Maiolati, La Vestale

Lavoro dalla gestazione assai tribolata, sia per le correzioni e i tagli che fu necessario  apportare, i malumori manifestati dagli artisti durante le prove  e perfino l’alluvione che danneggiò gli scenari già pronti  per l’allestimento, ebbe tuttavia, a compensazione, un successo con pochi precedenti: alla première del 1807 all’Opéra di Parigi (allora Académie Impériale de Musique) seguirono fino al 1830 duecento repliche, con una permanenza nel repertorio del teatro parigino per cinquant’anni e rappresentazioni regolari nei maggiori teatri europei. 

Su libretto di Étienne de Jouy da un soggetto di Winckelmann, La Vestale rappresenta per il compositore il primo vero passo verso uno stile personale, molto lontano da quello napoletano delle prime opere italiane e verso il quale le opéras comiques che la precedettero (La petite maison, Milton, Julie) rappresentano una sorta di banco di prova con la prosodia francese.

L’allestimento del Teatro Pergolesi ha avuto innanzitutto il merito di portare in scena un’opera di rara esecuzione, di cui si contano anche poche incisioni, rappresentata a Jesi solo nel 1875, 1974 e 1986, nella versione originale in lingua francese, con revisione sull’autografo della Scuola di Filologia dell’Accademia di Osimo a cura di Federico Agostinelli e Gabriele Gravagna per Edizioni Ricordi,  in collaborazione con Centro Studi Spontini di Maiolati. Nuova la produzione, che unisce Fondazione Pergolesi Spontini (capofila), Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione Teatro Verdi di Pisa e Fondazione Ravenna Manifestazioni.

Molto accurata e precisa la direzione musicale dell’opera, a cura di Alessandro Benigni sul podio dell’Orchestra La Corelli, a cui si deve fare  l’unico appunto di un volume in alcuni momenti eccessivo nell’equilibrio con le voci; la protagonista è stata interpretata da Carmela Remigio, che ha affrontato una parte di grande impegno sia vocale che  drammatico con sicurezza e intensità interpretativa, dando vigore al carattere sfaccettato della giovane Giulia divisa tra amore e ruolo sociale, nei suoi slanci di inquietudine e  ribellione, mescolati  a rassegnati cedimenti  e doloroso languore. Una parte davvero impervia che impegna al massimo la voce nella forza  di emissione e nel volume. Al suo fianco Bruno Taddia nella parte di Licinio, ruolo questo vocalmente controverso che Spontini scrisse prima per un tenore grave, François Laïs, adattandolo poi per un tenore di grazia, Étienne Lainez: questo cambiamento fu agevole per la scrittura delle parti solistiche, recitativi ed arie, ma non lo fu per i duetti e i brani di insieme, dove rimase la stesura originaria e il registro  molto grave per la voce di tenore. Per questo motivo la parte di Licinio nella discografia appare interpretata prevalentemente  da tenori   (Corelli e Araiza, rispettivamente 1954 e 1991; De Barbeyrac, 2022) mentre nella rappresentazione scaligera del 1993 diretta da Muti il  ruolo era del baritono Anthony Michaels-Moore:  la parte fu riportata alla stesura originaria, recuperando dei passaggi che erano stati soppressi e riportando la successione delle scene dell’atto III al libretto del 1807. Il libretto dà infatti una versione dell’opera sensibilmente diversa da quella che appare nella prima stampa della partitura,   frutto di aggiustamenti che avvennero durante le prime recite. 

La versione jesina dell’opera  quindi, preceduta da uno studio della partitura autografa conservata a Parigi che ha consentito di verificare le varianti apportate dall’autore, si avvicina a quella diretta da Muti nel 1993, completa dei balletti che secondo la consuetudine francese erano collocati alla fine del primo e del terzo atto. 

Taddia dunque ha interpretato in modo apprezzabile la parte del valoroso generale romano, ritornato da gloriose imprese ed ancora innamorato della giovane che le fu promessa in sposa, ma ora destinata dal padre a divenire sacerdotessa della dea Vesta. Ruolo vocalmente anche questo impegnativo, drammaticamente molto denso ed impetuoso, che Taddia ha reso con piglio vocale sicuro ed energico. Molto bene anche il Cinna di Joseph Dahdah, a suo agio scenicamente  e generoso nell’emissione.  Daniela Pini è stata poi la Grande Vestale, anche lei molto nella parte sia vocalmente che attorialmente, Adriano Gramigni, basso profondo,  il Gran Pontefice, e  Massimo Pagano in  doppia veste  capo degli Aruspici e  console. A loro si è affiancato il Coro del Teatro Municipale di Piacenza, preparato da Corrado Casati, che ha offerto un’ottima prova. 

L’allestimento presentava una scenografia, ideata da Gianluca Falaschi, autore anche dei costumi e responsabile della regia,  molto elegante ed essenziale,  costituita solo da tendaggi, che creavano un ambiente neutro  vagamente rievocante nel soffitto i palazzi barocchi parigini; bellissimi anche i costumi, che tuttavia poco ci azzeccavano con le sacerdotesse di Vesta e con i generali romani. Più che altro in scena si vedevano uomini in smoking (magari con una toga appoggiata sopra) e donne in abito elegante riunitisi per un’ occasione mondana: con un’operazione che ci è parsa discutibile Falaschi ha inteso rappresentare, attraverso la storia della giovane vestale, la biografia di Maria Callas (forse perché memorabile interprete di questa parte?) divisa tra ruolo di diva e quello di donna. Salvo poi aprire la rappresentazione jesina con la voce registrata della cantante che diceva esattamente il contrario, e cioè che dentro ogni personaggio interpretato c’era lei stessa, la sua vera identità. Questa metafora ha attraversato tutta l’opera, dalle acconciature di Giulia e della Gran sacerdotessa, al costume bianco indossato per il ruolo dalla cantante alla Scala nel 1954 che aleggiava sulla scena ad inizio e fine rappresentazione, alle immagini di interni teatrali proiettate un paio di volte, allo spegnimento del fuoco sacro che fa cadere la scenografia per mostrare le quinte di palcoscenico.

Poco appropriati ci sono parsi anche i due balletti principali, con le coreografie di Luca Silvestrini, coreografo che avevamo apprezzato lo scorso anno nel Flauto magico al Teatro delle Muse di Ancona. Stavolta movimenti sgraziati, mimiche incomprensibili, per dei balletti tra il queer e il feticistico, con gambe sgambettanti in aria e piedi roteanti, smorfie, conati.  Peccato.

Il teatro ha fatto onore alla musica, bellissima, di Spontini e agli interpreti, con grandi applausi per tutti e specialmente per la protagonista. 

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