Il mercuriale Concerto che Mason Bates ha composto per Daniil Trifonov
A Santa Cecilia la prima esecuzione italiana di questo brano del compositore USA, celebre in patria e quasi sconosciuto in Italia
È un programma insolito quello del concerto che l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e del suo direttore ospite principale Jakub Hrusa, che viene eseguito in questi giorni a Roma per tre repliche e subito dopo sarà portato in tournée nelle quattro principali città tedesche e a Praga. È un programma tutto americano, mentre il direttore ceco ama mettere sul leggio ogni volta almeno un brano di un suo connazionale. Si comincia con George Gershwin, che ci porta in un mondo in cui la musica sinfonica classica si apre al jazz o, come in questo caso, alla musica cubana: si è ascoltata infatti la sua Cuban overture del 1932, il cui titolo originario era ancora più esplicito, cioè Rumba, senza quel richiamo classico all’ouverture. Gershwin la compose al ritorno da un viaggio all’Avana, dove aveva scoperto che la musica cubana autentica, con le sue ancora forti ascendenze africane, era ben diversa da quella che era diventata popolare negli USA. Volle allora travasare le melodie, i ritmi e gli strumenti del son cubano autentico nella classica struttura tripartita e nella grande orchestra sinfonica, usando perfino il contrappunto, seppure in quantità ridotta e in forma piuttosto semplice. I momenti migliori sono quelli in cui il tessuto orchestrale si dirada e viene in primo piano la musica cubana, seducente, sensuale e colorata da una nutrita sezione ritmica di strumenti a percussione tradizionali: maracas, conga, bongo, claves e altri ancora. Forse Hrusa non ha nel sangue la musica latino-americana né lo swing nordamericano, come lasciano supporre i tempi metronomici e il suono massiccio delle parti a piena orchestra, mentre le cose andavano decisamente meglio quando entravano in scena i solisti dell’orchestra – soprattutto i fiati – e le percussioni.
Il centro del concerto era però la prima esecuzione italiana del Concerto per pianoforte di Mason Bates. Questo quarantasettenne compositore americano è pochissimo noto in Italia (viceversa Bates conosce piuttosto bene l’Italia, perché da giovane è vissuto a Roma per un paio d’anni) eppure è il compositore contemporaneo più eseguito negli USA, dopo John Adams. Un risultato raggiunto anche grazie al suo ignorare i confini tra i generi, perché compone per la sala da concerto, per il teatro e per il cinema - e fin qui niente di strano - ed è anche DJ di dance music e performer di musica elettronica: in questa veste si è prodotto in questi stessi giorni all’American Academy in Rome. Questo Concerto è stato composto nel 2021/2022 ed è dedicato ad una star del pianoforte qual è Daniil Trifonov, che lo sta eseguendo in America e Europa (Philadelphia, San Francisco, Chicago, Roma, Berlino e così via).
L’alleanza tra virtuosi della tastiera e compositori di successo è una tendenza degli ultimi anni. A Santa Cecilia abbiamo già ascoltato il Concerto di Thomas Adès per Kirill Gerstein e avremmo ascoltato anche quello di Magnus Lindberg per Yuja Wang, se la pianista cinese non avesse cancellato il suo impegno per motivi di salute. Questi tre Concerti hanno la caratteristica comune di essere un campionario di stili diversi, come gli stessi compositori dichiarano. Ma in Adès i riferimenti erano evidentissimi, mentre in Bates spesso non sono riconoscibili: non c’è (e come potrebbe esserci?) il rinascimento evocato – secondo le dichiarazioni del compositore stesso – all’inizio del Concerto? Invece si riscontra “il solista romanticamente depresso che medita” all’inizio del secondo movimento. S’incontrano invece qua ritmi cubani e jazzistici, là chiare citazioni del Bolero e della Sagra della primavera, mentre probabilmente ci sono altre citazioni difficilmente avvertibili. Bates stesso ci fornisce l’aggettivo che meglio definisce il suo Concerto: “mercuriale”. In effetti passa in continuazione e con facilità e agilità da un motivo all’altro, da uno stile all’altro, da un’atmosfera all’altra. Lo si segue con piacere ma alla fine di questa mezz’ora e passa di musica si resta con la sensazione che l’abile ed estroso sciorinamento di tante idee non conduca da nessuna parte e non coinvolga né l’orecchio né l’anima, per così dire. La scrittura pianistica non è virtuosistica nel senso che attualmente si dà a questo parola - cioè suonare passaggi intricatissimi il più forte e il più veloce possibile - ma è varia, brillante, luminosa e perfino leggera. Non manca però qualche momento che per un altro pianista potrebbe essere difficile ma che è facilissimo per un virtuoso del calibro di Trifonov. Certamente questo non è il tipo di musica contemporanea che intimidisce e spaventa il pubblico e infatti è grande il successo per il compositore, presente in sala, e per gli interpreti: come bis Trifonov ha suonato il primo dei Sarcasmi op. 17 di Prokof’ev.
Concludeva il concerto un altro brano “americano”, le Danze sinfoniche, ultima opera di Sergej Rachmaninov. Musica americana? Sì, perché composta nel 1940 negli Usa, dove il compositore viveva da più di vent’anni. Ma non aveva dimenticato la sua Russia, lo spirito russo, la nostalgia russa e la sua musica da lui stesso composta in Russia, di cui si possono qui rintracciare alcune autocitazioni. È comunque musica più asciutta e più sensibile alla modernità (Stravinskij, Prokof’ev) rispetto al tardoromanticismo dei suoi Concerti e delle sue Sinfonie: forse per questo il pubblico ha applaudito con calore la bella esecuzione che ne hanno offerto Hrusa e l’orchestra, ma non con l’entusiasmo con cui solitamente accoglie Rachmaninov.
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