Il meraviglioso equivoco di The Necks
Il Centro d'Arte di Padova chiude la stagione 2017 con il concerto degli australiani The Necks
Ci hanno provato in tanti a trovare una definizione precisa per gli australiani The Necks. Tirando in ballo il minimalismo e l’improvvisazione radicale, cercando fantasiose sponde nel rock meno allineato e nei processi di stratificazione tipici di certa elettronica, sproloquiando di jazz, ambient, avanguardie newyorchesi e derivazioni kraut. La verità è che trent’anni dopo la musica dei The Necks resta un meraviglioso equivoco.
Ribadito disco dopo disco (una ventina quelli all’attivo), esibizione dopo esibizione. L’ultima, qualche giorno fa, nella Sala dei Giganti del Liviano di Padova, nel bel mezzo di un tour mondiale (unica data italiana) e in coda al (fantastico) 2017 del Centro D’Arte degli Studenti dell'Università di Padova. Il contesto ideale per le liquide meditazioni del trio, impegnato in due set di tre quarti d’ora intervallati da una breve pausa e calorosamente applaudito da poco meno di cinquecento persone (coerenza e dedizione, grazie a dio, ancora pagano). Applausi meritatissimi dopo l'ennesima, strabiliante dimostrazione di unicità.
Nel rispetto di una visione ormai perfettamente centrata e di un approccio ritualistico (quasi sciamanico) alla narrazione (e all'estraniazione) che è il marchio di fabbrica di Chris Abrahams (pianoforte), Lloyd Swanton (contrabbasso) e Tony Buck (batteria e percussioni). Note cristalline e palpiti, rintocchi metallici e pulsazioni esitanti, sfasamenti millimetrici e reiterazioni ipnotiche che si addensano e si autorigenerano con implacabile coerenza, dando forma e vita a lentissimi crescendo. Vertigini per chi ascolta, accompagnate dalla sensazione di fluttuare in una dimensione in cui tutto cambia senza cambiare, in cui tutto si muove senza muoversi, in cui il tempo passa senza passare. Un eterno e instabile presente. Fatto di arpeggi dolcissimi e scheletrici distillati dalle dita di Abrahams, con il contrabbasso di Swanton libero di muoversi intorno al flusso, assecondandolo o complicandolo, mentre dalla batteria e dalle percussioni di Buck si leva un fitto e incessante pulviscolo di scampanellii, accenni, figure metriche spettrali, battiti irregolari e imprevedibili contrappunti.
Più sfuggente e distante, quasi impenetrabile, il primo dei due brani; ancora meglio per efficacia e sostanza il secondo. Meravigliosi entrambi. Frutto di un'intesa sublime e di un'idea di relazione tra spazio e dinamiche orgogliosamente antivirtuosistica (e antijazzistica). Come rimarcato dalla posizione degli strumenti rispetto al pubblico: Abrahams a destra, con le spalle verso i compagni, al centro Swanton e a sinistra Buck. Un triangolo cieco all'interno del quale è volutamente negato il contatto visivo tra i musicisti. Perché la musica passa altrove. Più in alto, lontana, inafferrabile.
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