Il linguaggio di sintesi di James Brandon Lewis
Al Jazz Club Ferrara una convincente verifica sulla classe del trentacinquenne James Brandon Lewis
Un paio di anni fa, sempre al Torrione di Ferrara, ascoltammo James Brandon Lewis e ne avemmo una buona impressione. Il concerto che ora ha tenuto nello stesso club a conclusione del tour europeo ci ha dato l’opportunità di riascoltarlo con una diversa formazione e avere una verifica sull’identità e la qualità della sua musica. Il trio “No Filter”, integrato dal chitarrista Anthony Pirog in qualità di ospite, è in attività da quattro anni circa e prevede un cd in pubblicazione nei primi mesi del 2019.
Nel primo brano ha spiccato prepotentemente un sound pieno e vibrante assieme a uno sviluppo lirico del tema solenne e su tempi medi, che ha richiamato esplicitamente il mondo espressivo dell’ultimo Coltrane. Brandon Lewis sembra così aver pagato subito il giusto tributo a uno dei suoi numi tutelari. Poi hanno preso campo dinamiche più contrastate e tese, progressioni trascinanti e sonorità più sforzate, con un eloquio infervorato da vero preacher attorniato dai suoi fedeli. Alle sue spalle prendeva corpo un accompagnamento di basso elettrico e batteria (Luke Stewart e Warren Trae Crudup) uniforme, matericamente informale, un po’ confuso. Il tutto a configurare un ambito free esasperato, un po’ generico e ancora non decantato.
Di seguito è emerso un fraseggio più staccato su scale melodiche ripetute e su temi di grana popolaresca, quasi replicando la declamazione provocatoria di un rapper. Altrove un’improvvisazione visionaria si è innescata su un pedale di basso africaneggiante. A un certo punto ha fatto capolino la breve citazione di un tema di Coleman, ma molto più spesso è stata evidente la rivisitazione dello spirito di Ayler, altro punto di riferimento imprescindibile. La riproposizione dello spiritual "Sometime I Feel Like a Motherless Child" si è rivestita di ossessive scansioni ritmiche, d’impronta funky.
Più degli altri due partner, funzionali e tonici ma non così autorevoli, il chitarrista ha usufruito di veri e propri spazi solistici; ha esposto con la sua sonorità abrasiva un’eloquenza efficace, un vigore esasperato e volitivo, fornendo un colore acidulo contrastante ma complementare a quello del leader.
Nel percorso composito del concerto ferrarese di James Brandon Lewis, oltre al bellissimo sound del suo tenore, sono risultati del tutto convincenti il puro entusiasmo emotivo e la visione mistica con cui il trentacinquenne sassofonista si è impossessato di alcuni momenti basilari del jazz afroamericano degli ultimi cinquant’anni, per rivisitarli con decisa personalità e tradurli in una proposta attuale di spiccata vitalità. In definitiva quella che James Brandon Lewis ci porta non è una parola di sostanziale innovazione, come trenta-quaranta anni fa prevaleva nel linguaggio di contraltisti quali Henry Threadgill, Steve Coleman e Tim Berne; il suo piuttosto è un linguaggio di sintesi della tradizione nera da cui proviene, ma condotto con una consapevolezza, una fierezza propositiva, una potenza espressiva che non danno adito a dubbi sulla onestà culturale e la validità del suo approccio.
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