Il Bologna Jazz Festival entra nel vivo

Il quintetto Samuel Blaser Early in the Mornin’ e soprattutto la trascinante pienezza delle orchestre a Bologna e a Ferrara

Bologna Jazz Tower Jazz Composers Orchestra (foto di Malì Erotico) 
Tower Jazz Composers Orchestra (foto di Malì Erotico) 
Recensione
jazz
Bologna e Ferrara
Bologna Jazz Festival 2018
02 Novembre 2018 - 05 Novembre 2018

Il Bologna Jazz Festival 2018, che per un mese si estende territorialmente e stilisticamente in più direzioni, è entrato nel vivo, interessando diverse location. Una rete di collaborazioni sempre più vasta ha permesso di organizzare le iniziative più disparate. Su tutte va segnalata, nei primi giorni del festival alla fine di ottobre, l’imperdibile proiezione di due filmati di Mike Dibb al Teatro San Leonardo, sotto l’egida di Angelica e alla presenza del regista britannico: Keith Jarrett – The Art of Improvisation del 2005 e The Miles Davis Story del 2001. 

Della programmazione concertistica diamo qui resoconto di tre appuntamenti, diversi fra loro e comunque rappresentativi della pluralistica realtà attuale del jazz americano e italiano.   

C’era grande attesa, il 2 novembre al Torrione Jazz Club di Ferrara, per uno dei nomi nuovi della ricerca americana: il trombonista Samuel Blaser a capo del suo quintetto Early in the Mornin’, comprendente, come in un paio di brani del cd omonimo, l’ospite Oliver Lake. Componente principale della musica del gruppo è risultata un’improvvisazione collettiva su tempi medio-lenti: strutture aperte e un senso dinamico altalenante hanno messo in evidenza le accentazioni eccentriche del drumming di Gerry Hemingway, il fraseggio un po’ divagato del leader, la ricerca insistita e virtuosistica del pizzicato del contrabbassista Masa Kamaguchi, gli essenziali inserimenti del pianista Russ Lossing e soprattutto i contrastati, spigolosi interventi dell’austero contraltista settantaseienne.

Queste fasi aperte e collettive, dall’impronta forse un po’ generica, sono poi risultate preparatorie a piccoli sottogruppi, a temi melodici e bluesy, a riff, che si sono risvegliati timidamente e hanno preso corpo, avviati soprattutto dalle liquide tastiere di Lossing e dal trombone di Blaser. Sono così emersi via via insiemi più compatti e tonici, prevalentemente brevi o più estesi, dal sapore vagamente mingusiano. In definitiva questa apparizione del gruppo di Blaser non ha convinto del tutto, elaborando una musica certo attuale, ma in bilico fra diversi approcci, alla ricerca di idee più decise e consapevoli.       

Con un’ideale staffetta, la sera seguente ci si è trasferiti dal Torrione ferrarese all’Unipol Auditorium di Bologna, dove si è ascoltata la Tower Jazz Composers Orchestra, gran bella esperienza di una ventina di ottimi elementi, che si è consolidata in un paio d’anni di prove e concerti appunto al Torrione. Per l’occasione la formazione si è confrontata con un leader d’eccezione: David Murray, anche in veste di solista ma soprattutto compositore e arrangiatore di buona parte dei brani in repertorio. Punto di forza del concerto sono risultati proprio gli arrangiamenti, complessi e variegati: piene masse sonore ritmicamente cadenzate, coraggiose e frastagliate frammentazioni dinamiche, anomalie timbriche, tempi dispari e cambi di direzione, fino a momenti di efficace conduction… Notevolissimi, per l’attualità della concezione e dell’articolazione, hanno spiccato due brani composti, arrangiati e diretti rispettivamente da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon. 

Esemplari la pronuncia strumentale, la coesione, il drive di tutta l’orchestra: in merito sarebbe inutile citare i singoli solisti. Non si possono però tralasciare gli interventi del sessantatreenne  David Murray, il cui tenore è ancora capace di vigorose zampate, costruendo assoli corposi e organici, dal sound caldo e vibrante nel registro medio-basso o lancinante nei sovracuti.

Un unico rammarico: in una larga formazione del Nord Europa, olandese, danese o finlandese, la quota rosa eguaglierebbe, o quasi, la componente maschile, mentre la Tower, oltre alla vocalist Marta Raviglia, schierava solo un’altra presenza femminile: la brava baritonista Giulia Barba, che per altro non risultava citata sul programma e che non ha beneficiato di alcun assolo.        

Interpretando opportunamente una delle tendenze in atto a livello internazionale, la programmazione del festival felsineo, che si concluderà il 25 novembre, punta i riflettori in particolare sulle orchestre e le larghe formazioni. Alla giovane e sorprendente compagine italiana ha fatto seguito, due sere dopo al Teatro Duse, La Clayton – Hamilton Jazz Orchestra, che si è confermata una big band tipicamente mainstream di grande classe. Sostenuta dall’elastica espressività del gesto direttoriale di John Clayton - solo vedere le sue movenze costituisce una lezione di swing - e dalla propulsione impeccabile, spumeggiante, tonica e rilassata al tempo stesso, del drumming di Jeff Hamilton, la formazione è capace di inoltrarsi in dinamiche, colori e impasti sempre diversi. Certo il sound complessivo, l’interplay serrato, la compattezza e la brillantezza ritmica sono favorite dalla levatura strumentale dei singoli. 

Bologna Jazz Festival - Clayton - Hamilton Jazz Orchestra - foto di  Malì Erotico
Clayton - Hamilton Jazz Orchestra (foto di Malì Erotico) 

Verso la metà del concerto è entrata in scena Cecil McLorin Salvant in veste di ospite speciale e stranamente in un paio di brani gli arrangiamenti orchestrali sono parsi più contrastati  e sperimentali, ma da lì in poi le attenzioni si sono concentrate sulle sue interpretazioni vocali di un repertorio non scontato: “I Hate a Man Like You”, “And I Love Him”, “I Don’t Know”, inizialmente in duo con le spazzole di Hamilton; un altro brano si è avvalso del sostegno del contrabbasso archettato di Clayton… Interpretazioni che potrebbero sembrare sofisticate. Certo spiccano una consapevolezza, una maturità intellettuale che guidano scelte selettive; nulla è lasciato al caso, tutto viene calibrato con eleganza, con un’emissione vocale che cura ogni minima inflessione, ma ogni passaggio risponde a una grande naturalezza espressiva, a una genuinità emotiva in sintonia coi testi, più che a un’esigenza intellettualistica.   

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