Il 40° Saalfelden è praticamente perfetto
Edizione da sogno del festival austriaco, con il meglio di quello che il jazz contemporaneo sa offrire
Non esiste il festival perfetto: qualcosa da migliorare, da aggiustare, da mettere a fuoco c’è sempre. Ma a Saalfelden, la piccola capitale europea del jazz, per l’edizione dei 40 anni ci sono andati parecchio vicini.
LEGGI: La recensione di Saalfelden 2018
Quattro giorni memorabili nel verde delle Alpi austriache. Non solo per la qualità delle proposte (tra conferme e assolute sorprese) e la partecipazione di un pubblico molto eterogeneo (dal veterano del free con sandalo d’ordinanza, all’imberbe fanatico della scena londinese con magliettina dei Black Flag e vinile di Binker & Moses sotto il braccio), ma anche per merito di una serie di novità logistico-organizzative decisamente apprezzabili.
A partire dall’idea di affiancare alla classica formula tripartita della rassegna (main stage, club-teatro per i set più raccolti e palco in piazza per i concerti gratuiti) una serie di eventi collaterali e di flash mob distribuiti tra parchi, biblioteche, un’antica stamperia e luoghi vari del centro (compresi un McDonald’s, con gli ignari divoratori di hamburger strappati al pasto domenicale da un manipolo di impavidi contrabbassisti, e la hall di uno storico albergo). Il tutto gestibile (anche grazie a un’app gratuita per smartphone) e godibile, sia dal punto di vista dei tempi che delle distanze. Bello. Bellissimo (jam notturne comprese). Anche perché funzionale alla musica, protagonista assoluta del festival e, da qui in poi, di questo piccolo (e parziale) resoconto.
A scuola dai maestri
Partiamo dal fondo, dall’ultima esibizione. Sul palco il quartetto Still Dreaming di Joshua Redman, completato da Ron Miles (cornetta), Scott Colley (contrabbasso) e Dave King (batteria, al posto del titolare Brian Blade) e nato come omaggio del sassofonista americano a un altro quartetto, gli Old and New Dreams del padre Dewey e di Charlie Haden, Ed Blackwell e Don Cherry. Che dire? Magistrali. Gli equilibri, le dinamiche, gli assoli (esemplari, come sempre, il gusto e l’eleganza di Ron Miles), le trame, gli arrangiamenti: una luccicante meraviglia; dalle sinuose linee di “Mopti“, brano scritto da Cherry e fatto a pezzi da un David King indiavolato, a “Broken Shadows“, inchino a Ornette Coleman, nume tutelare di entrambe le band, dalla spigolosa “Unanimity“ ai tormenti di “Blues for Charlie“, entrambe di Redman. Scontata e strameritata l’ovazione per quattro fuoriclasse assoluti.
Architetti, scienziati, ingegner
Applausi scroscianti anche per la sassofonista e flautista Anna Webber, di passaggio a Saalfelden per presentare in versione live il settetto Clockwise, una delle più chiacchierate novità del 2019. Al suo fianco, tra gli altri, due veterani della scena newyorchese come il pianista Matt Mitchell e il batterista Ches Smith (anche al vibrafono), spina dorsale di una band coesa e affilata, alle prese con una musica fitta, pulviscolare, densissima, timbricamente preziosa, sinistramente minimalista, fatta di contrappunti ossessivi e incastri millimetrici. Dalle parti degli Zooid di Threadgill, tanto per capirci (non a caso il disco della Webber è uscito per la Pi Recordings), ma con un afflato decisamente più accademico (alla base di Clockwise c’è un paziente lavoro di ricerca su cellule ritmiche estrapolate da varie composizioni per percussioni di Iannis Xenakis, Morton Feldman, Edgard Varése, Karlheinz Stockhausen, Milton Babbitt e John Cage). Il rischio era quello di un asettico, per quanto acrobatico, esercizio di stile; rischio evitato grazie a una performance in crescendo, con i sette che brano dopo brano sono riusciti a far respirare le partiture, sfruttando a meraviglia gli spazi concessi all’improvvisazione.
Simile per esiti e intenti la proposta del quartetto Noise of Our Time, al secolo Sylvie Courvoisier (piano), Ken Vandermark (sax tenore), Nate Wooley (tromba) e Tom Rainey (batteria). Anche qui linee fitte e spazi angusti, curve a gomito e percorsi labirintici all’interno dei quali smarrirsi. Un’idea di New York cubista e aliena (sullo sfondo il trio di Jimmy Giuffre), resa tangibile e umana dalle voci dei magnifici quattro: calda e sanguigna quella di Wooley, più aggressivo il piglio di Vandermark, impeccabile la Courvoisier nel tenere dritta la barra del timone, fantastico Rainey nell’evitare impasse e ristagni con la consueta, stupefacente intelligenza. Livelli altissimi.
Anarchici, terroristi, rivoluzionari
Livelli altissimi anche con il trio Abacaxi (l’ananas in Brasile) del chitarrista francese Julien Desprez, affiancato da Jean Francois Riffaut (basso elettrico) e Max Andrzejewski (batteria). Dove siamo? Su una spiaggia di Rio con Jimi Hendrix (attenzione: non è uno scherzo), Steve Albini e Arto Lindsay. Riferimenti tutt’altro che jazzistici per una band dall’impatto sonoro devastante, cucita addosso alle impressionanti doti dissacratorie di Desprez. Molto più di un figlio degenere di Derek Bailey (di quelli ormai ce ne sono fin troppi) o di un emulo tarantolato di Sonny Sharrock: colpita senza pietà, sventolata, sfregata, torturata, la chitarra si trasforma in un generatore di brutalità crudelmente assortite grazie a una frenetica danza sui pedali degna di un ballerino di tip tap. Come se non bastasse, tre potenti proiettori led puntati sui musicisti sottolineano i passaggi più convulsi e contorti con lampi accecanti, sfarfallii e improvvisi black-out. Uno dei momenti più entusiasmanti dell’intero festival.
Non da meno per intensità e impatto l’ensemble T(r)opic guidato dallo stesso Desprez e da Rob Mazurek. In trasferta a Saalfelden, per la seconda uscita della band dopo l’esordio parigino di qualche mese fa, alcuni dei meglio musicisti in circolazione: Susana Santos Silva (tromba), Lotte Anker (sax tenore e soprano), Mette Rasmussen (sax contralto), Isabel Sörling (voce ed elettronica), Mauricio Takara (percussioni ed elettronica), Ingebrigt Håker Flaten (basso elettrico e contrabbasso) e Gerald Cleaver (batteria). Nove intrepidi da sette Paesi diversi per un’ora abbondante di oscura e purissima astrazione, rischiarata di tanto in tanto da assoli abbaglianti (da brividi quello di Håker Flaten al contrabbasso) e scandita dallo scontro più che dall’incontro tra masse instabili e precarie. Il suono al centro di tutto, insomma, con il fluire e rifluire del magma alimentato da spunti ritmici minimi e da linee melodiche appena accennate. Gran cerimoniere del sabba uno spiritato Mazurek, attento a far convergere verso i passaggi obbligati i compagni di scorribande. Dalle parti del Sun Ra più sperimentale; una sorta di “imploding star orchestra“ che tutto attrae e tutto fagocita. Epocale.
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Ultimo campione della categoria il sassofonista James Brandon Lewis, scortato nel passaggio in terra austriaca da Jaimie Branch (tromba) e Anthony Pirog (chitarra), oltre che dai fedelissimi scudieri Luke Stewart (basso elettrico) e Warren Crudup III (batteria). Consolidato il copione del set, sulla scorta di un crescendo discografico culminato di recente nell’esplosivo An UnRuly Manifesto: free-funk ad alto voltaggio targato New York e sparato in faccia al pubblico con compiaciuta crudeltà. Azzeccata la scelta della Branch, capace di surfare sulle gigantesche onde sollevate dal quintetto dall’alto di un suono affilato e argentino; prezioso il contributo delle sei corde di Pirog, una versione post-punk di James Blood Ulmer al servizio delle dinamiche; magnetica la presenza di Brandon Lewis, predicatore folle e padrone assoluto della scena (nonostante una resa audio non proprio all’altezza della situazione), tra passaggi post-coltraniani, fibrillazioni ayleriane e mitragliate R&B (King Curtis, Eddie Lockjaw Davis, Stanley Turrentine, Willis Jackson: i rimandi si sprecano). Telepatica, infine, l’intesa tra Crudup e Stewart (autore di un solo memorabile), sezione ritmica tra le più versatili e martellanti che possa capitare di ascoltare; echi di Prime Time, profumo di Living Colour: meravigliosi.
Chiusura di capitolo con citazioni in ordine sparso per gli intrepidi che, distribuiti sui vari palchi, hanno animato gli eventi collaterali e le jam notturne. Briggan Kraus, Shahzad Ismaily (protagonista di un fantastico set solitario al basso elettrico di una ventina di minuti), Jim Black, Nate Wooley, Ken Vandermark, Ingebrigt Håker Flaten, Matt Mottel dei Talibam!, il trio Mopcut formato da Lukas König, Audrey Chen e Julien Desprez (la fine del mondo, o qualcosa di molto simile), il duo Mette Rasmussen-Tashi Dorji (sax e chitarra senza rete e senza filo), le giovanissime Siv Øyunn Kjenstad e Oddrun Lilja Jonsdottir: applausi a pioggia, c'è stato davvero di che divertirsi.
The British Invasion
Se ne parla da qualche anno ormai, tra chi storce il naso paventando l'ennesimo complotto modaiolo (roba già sentita, gli uffici stampa, i critici esterofili, i promoter corrotti, i poteri forti!) e chi è convinto che qualcosa di imprescindibile stia accadendo al di là della Manica. La verità? A ciascuno la sua. Ma quel che è certo è che dalla finestra spalancata dal festival di Saalfelden sul jazz inglese (e in particolare sulla scena londinese) qualcosa di buono lo si è visto. Più che gustoso, ad esempio, il duo formato da Elliot Galvin e Binker Golding, pianoforte e sax tenore in un dialogo serrato e mai banale, telepatico, sincero, modernamente monkiano: una bellissima scoperta. Ancora meglio il Binker & Moses Ensemble, estensione e mutazione di una delle sigle più fortunate e conosciute della Londra in jazz. Oltre ai titolari Binker Golding (sax tenore) e Moses Boyd (batteria), sul palco Wolfgang Mitterer (piano), Axel Kaner-Lidstrom (tromba), Jake Long (batteria) e John Edwards (contrabbasso), protagonisti di un set fiume che ha rotto gli argini della trita routine sconfinando nei territori del più ispirato e bruciante new spiritual. Merito del sax tenore salmodiante di Golding (musicista lucido come pochi), della spinta propulsiva della doppia batteria, ma soprattutto del contrabbasso visionario di Edwards, improvvisatore formidabile e corrosivo, generatore di linee allo stesso tempo implacabili e sgangherate. Un gigante e una presenza doppiamente significativa: per la lunga militanza nei contesti più precari e disparati della scena inglese (da Evan Parker agli Spring Heel Jack) e per lo strettissimo rapporto che lo lega a uno dei grandi padri della nuova generazione british, il batterista Louis Moholo.
Un altro cerchio che si chiude, uno di quelli che solo il jazz sa tracciare.
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