I Liars in Officina
Il trio newyorkese alle OGR di Torino
Recensione
pop
Punk, elettronica, new wave, dance, krautrock: è così urbana e contaminata, la musica dei newyorkesi (d’adozione) Liars, che sembra fatta apposta per essere suonata – urlata, vomitata, violentata – in una location dal sinistro fascino post-industriale come le torinesi Officine Grandi Riparazioni – che, pare, potranno anche offrire una casa al Traffic Festival (per ora rimandato a settembre) nei prossimi mesi. In ogni caso, in un'ora e mezza di intensa esibizione il pubblico avrà avuto modo di pensare a ben altro. Alla stridula e sermoneggiante voce di Angus Andrew e alle sue movenze robotiche à la David Byrne, per esempio, o al selvaggio eppure calibrato mix di sintetizzatori e percussioni a farne da tappeto. O, ancora, a un’esibizione che alle chiacchiere (giusto qualche “grazi milli” di tanto in tanto da parte del frontman) ha preferito anteporre una personalissima, per quanto inevitabilmente derivativa, visione della musica contemporanea, fatta di ballo e di sudore, alla maniera del vecchio rock’n’roll, ma anche di un certo minimalismo d’avanguardia colto e un po’ snob (o, come si preferisce dire oggi, hipster).
Inconsistente e volutamente “lo-fi” da un punto di vista tecnico e strumentale, il trio ha comunque saputo coinvolgere, avvolgere e assordare il pubblico con un efficace wall of sound sintetico, ora ipnotico e ossessivo, quasi psichedelico, ora ballabile, ora cupo e disperato, figlio illegittimo tanto dei Joy Division quanto dei New Order, dei Doors come dei Kraftwerk e dei Can, dei Suicide come dei Gang of Four.
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