I lampi di Flavio Giurato
Una rara esibizione del cantautore al FolkClub di Torino
E poi c’è Flavio Giurato. Lo vedi dal vivo e pensi che tutto il resto sia finto. Ha questa faccia cristologica, da chi ha attraversato Getsemani, Golgota, morti e resurrezioni. Trovando comunque una maniera per cantarlo. Non che gli diano retta in tanti: saremo stati una settantina ad ascoltarlo al FolkClub di Torino. E questo, più che descriverne lo scarso successo, denuncia come siamo messi. Però alcuni dei presenti, talvolta con facce imprevedibili e avendo addirittura figli al seguito, che chissà quali idee si saranno fatti del personaggio, conoscono le canzoni a memoria e le mormorano all’unisono con lui. Per parte sua, affiancato da un chitarrista talora a un passo dall’insofferenza, in certi momenti Giurato dimentica persino i testi di cui è autore. Eppure se la cava, perché sul palco ha un atteggiamento da teatrante riluttante che, pur non essendo affatto calcolato, incanta il pubblico. E scrive cose pazzesche: non sempre, ma con estemporanei lampi di puro genio poetico. Non dico ciò che già conosciamo, tipo le perle di quel tesoro nascosto della musica nostrana chiamato Il tuffatore (anno di grazia 1982), bensì le nuove, che butta lì con nonchalance da principiante. Sta preparando un disco nuovo, cosa insolita per le cadenze pigre della sua carriera, considerato che appena due anni fa ha pubblicato La scomparsa di Majorana, e il pezzo che – a quanto dice – gli darà titolo, “Le promesse del mondo”, è una specie di versione su pentagramma di Fuocoammare. Una canzone folgorante, per intensità e acume. Il modo in cui racconta, cantando e suonando, punti di vista diametralmente differenti – dal coatto di Centocelle all’agente della Digos – è in sé letteratura ai più alti livelli. E la musica intorno l’accompagna degnamente, benché i mezzi siano in questo caso poverissimi. Roba rara. Avercene di cantastorie così.
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