Grigio "Don Carlo" per l'apertura di stagione a Palermo
Restaurato l'allestimento di Visconti del 1965 - ma senza l'atto di Fontainebleau - con la regia modestissima di Fassini; sul podio Palumbo alterna espansioni liriche e clangori da grand-opera, a discapito delle voci. Disomogeneo il cast, su cui eccellono il Filippo II di Prestia e il Don Carlo di Fabio Sartori.
Un "Don Carlo" color del piombo ha inaugurato la stagione 2003/2004 del Teatro Massimo di Palermo, riprendendo il fastoso allestimento – scene e costumi, ma allora anche la regia – di Luchino Visconti per l'Opera di Roma del 1965. Lì cinque atti, qui quattro. Già questo lascia perplessi, chè se "Don Carlo" (in italiano) ha da essere, preferiremmo la versione di Modena a quella di Milano. Allora, Elisabetta discendeva nel bosco di Fontainebleau da una portantina circondata da levrieri; qui, Alberto Fassini – che firma una non-regia – di levrieri ne piazza due dinanzi alla mano affettuosa di Filippo II nella seconda scena del I atto. Ma i gusti son mutati, ed i giochi di volano delle dame (tutte abbigliate dagli stessi scampoli di stoffa) nel Chiostro di San Giusto, le arance incollate alle ceste offerte da improbabili paggetti oggi stupiscono ben poco; imbarazzante poi l'Autodafè, che Fassini – sull'onda di uno zeffirellismo di terza mano – affolla di cristi morti, di flagellanti a torso nudo (invero nutriti con hamburger McDo), di popolani con le braccia levate verso l'alto, di uno-sbandieratore-uno, sotto le accecanti luci (mai una idea in quattro ore di spettacolo) di Franco Mari. Per il resto i protagonisti son lasciati allo sbaraglio, quasi avessero provato poco o niente. Palumbo dal podio sceglie colori scuri, con buoni effetti nei momenti cantabili, con clangore (quei timpani così in primo piano!) eccessivo più spesso, coprendo le voci. Cast disomogeneo: eccellente il tormentato Filippo II di Giacomo Prestia (a cui sono andati gli applausi di un pubblico per il resto annoiato e defilato), squillante il Don Carlo di Fabio Sartori (ma ricordava troppo quei salamini di jacovittiana memoria...), algida e priva di legato l'Elisabetta della Matos, sopra le righe la Eboli della Casolla (e quella canzone del velo, tirata via con dei 'coccodè' al posto delle agilità...), esagitato e sfiatato nel registro più grave l'Inquisitore di Kotscherga, signorile ma sfibrato il Rodrigo di Bruson.