Francoforte apre con il contemporaneo
Tre sorelle di Péter Eötvös e Lost Highway di Olga Neuwirth inaugurano la stagione dell’Oper Frankfurt
Dopo l’infelice apertura con il Trovatore nella scorsa stagione, l’Oper Frankfurt lascia i grandi classici al repertorio e raddoppia con il contemporaneo: sono ben due i titoli che inaugurano la stagione nei due palcoscenici dell’Opernhaus e del Bockenheimer Depot. La scelta è caduta su due titoli non recentissimi ma già ampiamente circuitati in numerosi teatri internazionali. Si tratta di Tri Sestry (Tre sorelle) di Péter Eötvös e di Lost Highway di Olga Neuwirth.
L’opera di Péter Eötvös approda a Francoforte esattamente a vent’anni dal fortunato battesimo all’Opéra di Lione e un lungo percorso in 27 tappe europee, che lo hanno reso un piccolo classico contemporaneo. Un successo dovuto senza dubbio al soggetto čechoviano, trattato con grande libertà nel libretto dello stesso Eötvös e Claus Henneberg che, abolendo la successione temporale del dramma originale, concentra gli eventi in un breve prologo e tre lunghe sequenze centrate su tre dei personaggi cardine del dramma, cioè Irina, Andrej e Mascha. Spogliata della dimensione storica (ma anche della sublime ironia čechoviana), domina la dimensione tragico-esistenziale, accentuata dall’articolata trama orchestrale di tono marcatamente crepuscolare.
A Francoforte aggiunge il suo carico anche la regia diligente ma priva di guizzi di Dorothea Kirschbaum. Sguardi persi nel vuoto, i personaggi vagano in ambienti spogli chiusi fra due orchestre – un piccolo giardino con giochi da bambini e un ambiente cucina/living in stile contemporaneo (la scena in stile Ikea è di Ashley Martin Davis) – esternando fin dalle prime battute il plumbeo pessimismo al quale sono rassegnati, nonostante le labili illusioni di fughe solo vagheggiate. Più che chiarire gli snodi narrativi della trama (comunque piuttosto impliciti nel trattamento librettistico), il lavoro di regia si concentra soprattutto sulla cura attoriale degli interpreti, ispirata a una pensosità bergmaniana.
La cura si nota specialmente sulle tre sorelle “en travesti” di Ray Chenez, un’inquieta Irina, David DQ Lee, una sofisticata Mascia, Dmitry Egorov, una crepuscolare Olga, e su Mikołaj Trąbka, il fratello Andrej che palesa il proprio disgusto esistenziale nel forte monologo che rappresenta il momento forte non solo della sua sequenza ma anche dell’intera opera. Fra le figure di contorno, che vedono solo interpreti maschili in campo, riuscite soprattutto le caratterizzazioni di Barnaby Rea (Soljony), Eric Jurenas (Natascha), Mark Milhofer (il dottore) e Thomas Faulkner (Kulygin). Le complesse fila del discorso musicale le tessono efficacemente ben due direttori, ossia Dennis Russell Davies dalla buca e Nikolai Petersen dall’orchestra in scena.
Pressoché contemporanea di Tri Sestry, il lavoro di Olga Neuwirth, che ha debuttato a Graz nel 2003, affonda anche le sue radici in un altro classico ma cinematografico. Del film di David Lynch prende il titolo, Lost Highway, e molto della sceneggiatura, adattata in libretto operistico dal premio Nobel Elfriede Jelinek. Sopravvive la trama di due storie diverse – quella del trombettista jazz Fred alle prese con il presunto omicidio della propria donna Renée e quella del meccanico Pete irretito dalla pupa del gangster in una storia ad alto rischio e irrisolta quanto l’altra – con spiazzante intersezioni e inattese cambi di prospettiva. Se l’approccio di Eötvös sulla sua personale versione del dramma di Čechov è omogeneizzante, Neuwirth non prova nemmeno a uniformare un materiale drammaturgico che procede per salti ed è intrinsecamente disorganico. La sua musica ha un cuore selvaggio (per stare sul lessico lynciano), è fatta di violenti cluster e di un vitalismo energetico interrotto solo da rare isole di pace e da qualche straniante citazione passatista. Un’energia che viene resa efficacemente dall’apprezzabile esecuzione dell’Ensemble Modern guidato da Karsten Januschke.
L’allestimento firmato da Yuval Sharon ha soprattutto il pregio di non provare a rifare il film di Lynch. Sfrutta invece abilmente la tecnica cinematografica del green screen per comporre un mondo virtuale di proiezioni di sapore psichico (scene e video sono di Jason H. Thompson e Kaitlyn Pietras) che sono gli infiniti spunti di un racconto incompiuto. Bandita ogni forma di naturalismo o di psicologismo, l’eterogeneo cast di attori, cantanti e vocalist si presta al complesso gioco di specchi e di telecamere messo in piedi da Sharon con millimetrica precisione di movimenti. Protagonisti a parte – l’attore Jeff Burrell come Fred con la faccia impassibile dell’hardboiled hollywoodiano, l’espressivo John Brancy come Pete, e la provocante Elizabeth Reiter nel doppio femminile di Renée e Alice – funziona benissimo il gioco di squadra. Particolarmente incisive le presenze di Rupert Enticknap, nell’ambiguo ruolo di Mistery Man, e di David Moss, che regala presenza stralunata e voce metamorfica ai personaggi di Eddy e Dick Laurent.
Pubblico numeroso (specialmente per Neuwirth). Doppio successo.
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