Diamanti sulla cassa della chitarra
Paul Simon, a 67 anni, è ancora un grande performer, oltre ad un musicista eclettico e coinvolgente
Recensione
pop
I concerti dei mostri sacri sono un terno al lotto, perché la paura del “non è più quello di una volta” spesso si rivela fondata. Ma a Paul Simon si perdonano anche un paio di dischi così così, finché lascia in camerino i suoi 67 anni e srotola due ore di grinta e classe. Ventidue pezzi senza aprire bocca, quasi a risparmiare per la musica tutto il tempo possibile, e un gruppo variopinto di otto elementi a sostenerlo nella sua incontrollabile voglia. Se il concerto è il polso da tastare per capire come un musicista si senta, d’altronde, Simon ha 25 anni di meno: la maggior parte dei pezzi arriva dagli anni ’70 (“Me and Julio down by the schoolyard” scanzonata e rotolante, “Duncan” struggente nel suo incedere andino, “Still crazy after all this years” con piglio confidenziale) e ’80, con la difficile “Train in the distance”, il gran finale con il turbolento blues caraibico “Late in the evening” e ben cinque pezzi da “Graceland” – “Gumboots”, “The boy in the bubble”, la grassa e sorniona titletrack, “Diamonds on the soles of her shoes” e “You can call me Al”. Delle recenti scorribande colpisce per malinconia “You are the one”, quasi Van Dyke Parks nel suo barcollare tra Medio Oriente e Caraibi, mentre “Teacher” arriva da “Surprise”, in combutta con Brian Eno. Ovviamente anche qualcosa della coppia storica che l’ha portato alla ribalta: il picco emotivo con “The Sound of silence” in solitudine con la propria acustica, una delicata e inaspettata “The only living boy in New York”, una stralunata e soffusa versione di “Mrs. Robinson”. Perché si contano sulle dita di una mano quei musicisti che possono schierare in un concerto venti-trenta successi acclamati a livello mondiale. Ma sono ancora meno quelli che dal vivo ne fanno capolavori dopo cinquant’anni esatti di carriera.
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