Da Carpi a Solbiati, passando per Kafka e Strehler
Elaborata e riuscitissima operazione del Lirico-Sperimentale di Spoleto, per battezzare l’incompiuta Porta divisoria
La complessa storia alle spalle della prima assoluta di La porta divisoria, atto unico che Fiorenzo Carpi – indimenticato grazie alle sue musiche per il teatro e il piccolo o grande schermo – aveva quasi finito di comporre per la stagione scaligera 1956-57, impone un riassunto, anche per encomiare gli sforzi progettuali del Lirico Sperimentale di Spoleto nel disegnare le soluzioni adatte a portare in scena il titolo. La partitura per grande orchestra, completata da Carpi fin quasi a tutto il quarto dei cinque quadri, è stata liofilizzata per grande ensemble da camera da Matteo Giuliani; su questo organico, Alessandro Solbiati ha composto ex novo il quinto e ultimo quadro, eseguibile anche separatamente come L’ultimo buio, utilizzando il libretto (tratto da La metamorfosi di Kafka) confezionato per Carpi da Giorgio Strehler, committente di molte sue musiche per il teatro. Il titolo di Carpi era stato di nuovo annunciato nella stagione scaligera ’70-’71, e il compositore aveva già precedentemente approntato lo spartito per i primi due quadri (fonte alternativa, servita a Giuliani per dirimere alcune varianti del testo musicale) in vista della rappresentazione. Ma Carpi non ultimò mai la partitura.
Sul perché di tale deliberata incompiutezza, si può solo congetturare: che la drammaturgia ‘elegiaco-rituale’ del finale non convincesse Carpi, non si può escludere, ma non certo per i motivi di perplessità che l’interessantissima lettera inviatagli da Strehler al completamento del libretto (meritoriamente inclusa nei materiali del programma di sala) evoca; la questione lì toccata da Strehler, attuale allora – in una fase di crescente ripensamento estetico ed operativo della drammaturgia musicale – come ora per svariati motivi, riguarda la domanda: “chi guida nella genesi della drammaturgia? il compositore? l’autore del testo librettistico? o si sceglie di percorrere una strategia fortemente interattiva?” Per Strehler tutte e tre le soluzioni erano (sono!) praticabili, ma nella missiva si rammarica col compositore che in realtà nessuna di esse sia stata imboccata per quel lavoro. Più probabile, soprattutto a inizio anni Settanta, può essere l’intervenuta mutazione dell’orizzonte linguistico-musicale: quanto composto da Carpi fino all’interruzione mostra i caratteri tipici della ricezione dodecafonica del secondo dopoguerra, perfino con un certo rigore espressivo nella condotta vocale (quasi sempre sillabica, ma non priva di slanci lirici, soprattutto quella del personaggio centrale) e un’asciuttezza della comunque articolata figuralità nella scrittura strumentale, peraltro allargata ad elementi sonori realistici (suoni di sveglia, di posate etc.) memori forse dei radiodrammi del tempo.
Entro questo quadro stilistico ‘storicamente determinato’, il lavoro di Carpi è di valore, e funziona bene soprattutto grazie all’architettura della distribuzione e delle densità vocali: solo Gregor Samsa ha un rilievo autenticamente solistico e lirico; i personaggi del Gerente e della Seconda domestica (che provvede da sola, nel corso dell’ultimo quadro composto da Solbiati, all’inumazione del corpo di Gregor-scarafaggio in un clima tra il patetico e il grottesco) sviluppano un fraseggio espressivo del tutto diverso. Le altre entità drammatico-personali tendono a sfaccettarsi su tre realtà vocali: i tre Pensionanti, un blocco satirico-grottesco, e soprattutto i tre parenti di Gregor, che dipanano invece in più direzioni le loro reazioni alle circostanze in un contrappunto insieme emotivo e melico, senza però mai intercettare appieno la lunghezza d’onda, dolente e solitaria, della situazione e dell’introiezione di Gregor. Il dramma di questi è perciò sia dell’incomunicabilità, sia dell’esclusione, e le soluzioni registiche e spaziali messe a punto da Giorgio Bongiovanni (palcoscenico separato dall’avanscena e dalla sala da un muro-velo trasparente, ma comunicante con questa – e quindi con lo spazio di Gregor, invisibile nel palco reale dietro il pubblico – attraverso la porta del titolo) lo hanno valorizzato con notevole evidenza e plasticità esperienziale per gli spettatori. L’ottima riuscita generale si deve pure a quella specifica dell‘ultimo quadro di Solbiati: si coglieva ovviamente una differenza di linguaggio, orientato più allo scavo timbrico che all’ordito polifonico della musica di Carpi, ma comunque dentro una continuità drammatico-musicale, alla quale hanno giovato alcuni comportamenti vocali estensivi, nei glissandi e nelle inflessioni d’emissione, dello Sprechgesang ampiamente adottato da Carpi, pur entro una profilatura più franta e ‘fonetica’ – in Solbiati – che nei fraseggi più o meno arcuati dell’originale. Assai solida ed efficace nella riuscita drammatica (scenica e musicale) tutta la giovane compagnia di canto, un collettivo magistralmente preparato con la consueta perizia e profondità di pensiero interpretativo da Marco Angius, bravissimo soprattutto a ottenere il duecento per cento dall’altrettanto giovane ensemble strumentale.
Audience nutrita e curiosa, alla première, con presenza consistente della critica nazionale, segno dell’interesse suscitato dalla pregevole operazione; applausi lunghi, molto calorosi e più che convinti al termine.
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