Bergamo Jazz da Douglas a Douglas
Successo di pubblico per il Bergamo Jazz di Dave Douglas, confermato anche per la quarta edizione: il racconto dei concerti e le foto di Luciano Rossetti
Più che mai il Bergamo Jazz Festival, evento di spicco d’inizio primavera giunto alla quarantesima edizione, ha assunto una diffusione urbana, articolando la programmazione in più sezioni che hanno coinvolto, in diverse ore nell’arco della giornata, spazi e sedi di dimensione e caratteristiche varie. A cominciare dal Creberg Teatro che, in sostituzione dell’indisponibile Teatro Donizetti, alla vigilia suscitava qualche perplessità in merito alla dislocazione e all’accoglienza.
In un resoconto il più possibile oggettivo delle ultime tre giornate del festival diretto da Dave Douglas – qui il report della scorsa edizione – la precedenza va di diritto appunto alle tre serate al Creberg Teatro, diversissime fra loro e sempre premiate dal pubblico delle grandi occasioni. Va detto a tale proposito che, al di sopra di ogni aspettativa, nella periferica e recente struttura, con una capienza massima di 1500 posti, si sono verificate un’acustica e un’amplificazione ottimali, che hanno esaltato le potenzialità di tutte le formazioni in programma.
Con il settetto di Maceo Parker, forte del trombonista londinese Dennis Rollins (ex Jazz Warriors) e del bassista Rodney “Skeet” Curtis (ex Funkadelic), ci si è trovati immersi in una spettacolarità tipicamente nero-americana, esuberante e comunicativa. Un frenetico tappeto funky, inesorabile ma variegato, intervallato da stop a effetto, è macinato dalla professionalità della sezione ritmica. Su questo tessuto forsennato tutto si muove doverosamente a ritmo: il fraseggio staccato e lancinante del contralto del leader, il suo canto declamatorio e ruvido, le mossettine robotiche del suo corpo, gli ammiccamenti… Salvo poi lasciare posto a momenti di decantazione: una romantica versione di “Moonlight In Vermont”, in omaggio a Ray Charles, cantata da Parker con il solo sostegno del tastierista newyorchese Will Boulware, una ballad affidata al robusto trombone di Rollins accompagnato dallo stesso tastierista… La voce di Darliene Parker, cugina del leader, emerge solo nel finale in una sguaiata interpretazione di “Stand By Me”.
La sera seguente la Latin Piano Night si è aperta con l’ultimo concerto della tournée di due pianisti interdipendenti e affiatati come gemelli: i cubani Chucho Valdes e Gonzalo Rubalcaba. Inizialmente, su temi circospetti e irriconoscibili, i due si sono dati il cambio in spazi individuali, in cui il loro virtuosismo estremo, dal tocco limpido e sgranato, ha rivelato la sensibilità poetica e sospesa di Rubalcaba e l’approccio leggermente più affermativo di Valdes. Poi i due pianisti hanno proceduto assieme e gli intrecci, i ruoli, le elaborazioni sono andati via via complicandosi.
Non si è trattato mai di banale latin jazz, ma di una sintesi sofisticata di pianismo classico e pianismo jazz. Certo fanno capolino anche sapori cubani, ma talmente decantati e rielaborati da assumere la consistenza e l’eleganza della musica colta, abbandonando qualsiasi scoria di una facilità popolaresca. Il simbiotico coordinamento della loro diteggiatura, l’unitaria matrice culturale e l’istantanea comunione d’intenti dà adito a un’instancabile inventiva e a una strabiliante forza espressiva. Si succedono così rapsodiche scorribande quasi free e un tocco d’ironia, andamenti swinganti e squarci di struggente poesia… Un duo pianistico insuperabile, mille miglia distante quindi non solo dalle discorsive cadenze del latin jazz, ma anche dalle rassicuranti certezze del mainstream.
Un’opinabile scelta artistica ha fatto sì che subito dopo il raffinatissimo duo cubano salisse sul palco Chano Dominguez, sostenuto adeguatamente dall’efficace bassista Horacio Fumero e dal batterista David Xirgu. La prova dell’eclettico pianista spagnolo, trasferitosi da qualche tempo a New York, è stata più convincente che in altre occasioni. La sua solida diteggiatura sciorina ritmi vigorosi e forme ben stagliate, anche se il suo atteggiamento musicale, venato a tratti di blues e di tenui riferimenti al flamenco, non trascende appunto un mainstream dai profumi latini… e per giunta, a tratti, la qualità melodica dei suoi temi sembra dubbia.
Bergamo Jazz si è concluso al Creberg Teatro con un progetto speciale a cui Dave Douglas teneva particolarmente: la riunione dei direttori artistici succedutisi negli ultimi tredici anni, vale a dire Uri Caine, Paolo Fresu, Enrico Rava, oltre allo stesso Douglas, che ha saldamente tenuto anche funzioni registiche. La ritmica era affidata agli infaticabili Linda May Han Oh e Clarence Penn, mentre tre ospiti di peso (Greg Ward, Tino Tracanna e Jeremy Pelt) sono entrati a turno in scena. Anche a livello compositivo Douglas si è riservato la parte del leone: sette brani suoi contro uno di Fresu, uno di Rava e uno di Gillespie. Si sono così concretizzate situazioni diverse, ben caratterizzate e articolate, evitando una generica sequenza di assoli; ognuno ha comunque avuto spazio per esprimersi in interventi essenziali e mirati. È stato interessante notare per esempio come i diversi e personali sound dei quattro trombettisti, al centro della scena in varie combinazioni, racchiudano mondi espressivi, e direi quasi visioni esistenziali, dissimili se non proprio discordi.
Ma vale la pena di mettere in evidenza altri episodi del concerto: l’impianto coltraniano di “At Dawn” di Douglas ha avviato uno spunto notevolissimo di Tracanna, mentre l’andamento danzante di “Un tema per Roma” di Fresu è stato valorizzato dal melodico impasto dei collettivi. Il contralto di Greg Ward si è imposto in un contributo dalla spigolosa e frenetica pronuncia bebop; “Tribe”, scritto da Rava nel 1975, ha invece permesso un infuocato intreccio delle trombe, oltre a favorire un assolo della contrabbassista sviluppato con granitica sicurezza. Uri Caine infine ha avuto molte occasioni per esporsi come vivace solista e nel fondamentale ruolo di accompagnamento. A ben vedere l’obiettivo principale di quest’operazione collettiva coordinata da Douglas è sembrato quello di celebrare la comunicazione aperta e interattiva della più genuina tradizione jazzistica, compreso quel tipico rapporto competitivo, ricco di stimoli e risultati.
È anche il caso di raccontare due concerti mattutini, completamente in acustico, accolti in sedi di grande pregio storico-artistico. Nell’Oratorio di San Lupo, gioiello nascosto di un’eleganza settecentesca intrisa di razionalismo illuministico, si è esibito il duo americano Brockowitz, attivo da un quinquennio e formato dal pianista Phil Markowitz e dal violinista chicagoano Zach Brock. Il loro simbiotico concertismo oscilla fra impressionismi descrittivi, brani dallo swing sostenuto e situazioni più arditamente strutturate, con una versione di “Come Sunday” che ha rispettato il mood ellingtoniano.
L’Accademia Carrara ha invece ospitato il duo Louis Sclavis – Vincent Courtois. All’inizio del loro sodalizio, ormai molti anni fa, i due francesi indulgevano con convinzione a momenti di estrema improvvisazione free; oggi, nel proporre propri original dalle inflessioni colte o popolari, il clarinettista e il violoncellista sono orientati esclusivamente verso una concentrata dimensione cameristica, serena o dinamica, evocativa o dalle geometriche strutture, sempre sorretta da un narrativo senso melodico e da un virtuosismo avvincente. L’acustica leggermente risonante della sala dell’Accademia dedicata alla pittura veneta del secondo Cinquecento ha contribuito a fondere le sonorità dei due strumentisti in un insieme ben amalgamato.
A parte l’elegante esempio della ricerca europea fornito dal duo francese, la rappresentanza del jazz più attuale e sperimentale della scena internazionale non era particolarmente nutrita al Bergamo Jazz Festival 2018. Personalmente non ho potuto assistere al concerto del quintetto di Logan Richardson, ma le impressioni che ho raccolto erano tutte unanimemente perplesse.
Il quartetto di Linda May Han Oh, nell’unico concerto di questa edizione all’Auditorium di Piazza della Libertà, è stato motivato e convincente, senza però riuscire a entusiasmare. Il pregio maggiore della giovane formazione della contrabbassista, risultata irrobustita come strumentista e come leader, è consistito in una sensibilità melodico-ritmica costante e pulsante, ora delicata e incantatoria ora più tonica e contrastata. L’aspetto tematico e strutturale di quest’approccio jazzistico, che ha potenzialità di diventare nel tempo sempre più risoluto e personale, ha fatto sì che si evidenziasse soprattutto il fraseggio increspato del contraltista Greg Ward.
Le esperienze più motivate e combattive del giovane jazz lombardo erano racchiuse nella sezione “Scintille di jazz”, coordinata da Tino Tracanna.
Octo, la larga formazione diretta dal veterano sopranista Roger Rota, comprende nomi ormai noti, fra i quali la violinista Eloisa Manera, il sassofonista Francesco Chiapperini, il trombonista Andrea Baronchelli. Suggestioni di varia natura sono organicamente intrecciate e sviluppate in collettivi compatti e frastagliati allo stesso tempo.
La proposta del Pulsar Ensemble, formato nel 2014 da batteristi e polistrumentisti, si muove a cavallo di vari generi dell’attualità musicale. Le reiterazioni del quintetto, ora alonate e protratte dall’elettronica ora di natura più concreta, densa e percussiva, sembrano voler rievocare temperie primordiali o prefigurare estensioni cosmiche.
Il quartetto Aparticle, del quale la UR ha appena edito il cd Bulbs, è animato dal chitarrista Michele Bonifati e dal tastierista Giulio Stermieri, autori di tutti i brani. Nella marcata impronta jazzistica di composizioni ben scandite si sono inserite le metriche del batterista Ermanno Baron e soprattutto la voce del contralto di Cristiano Arcelli, brillante e articolata con grande pertinenza.
Il successo di critica e di pubblico di questa edizione del festival bergamasco ha superato ogni previsione, tanto che fin d’ora la Fondazione Teatro Donizetti ha deciso di confermare la direzione artistica a Dave Douglas anche per il 2019 per il quarto anno consecutivo.
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