Beatrice Rana e Antonio Pappano fianco a fianco al pianoforte

Con loro alcuni professori dell’Orchestra di Santa Cecilia in un programma cameristico di grande richiamo

Beatrice Rana, Antonio Pappano
Beatrice Rana, Antonio Pappano
Recensione
classica
Roma, Parco della Musica, Sala Sinopoli
Beatrice Rana, Antonio Pappano
07 Novembre 2022

Era appena finita la serie dei tre concerti in cui Beatrice Rana stava al pianoforte e Antonio Pappano sul podio che i due si sono ripresentati al pubblico romano, ma questa volta entrambi alla tastiera, suonando sia a quattro mani sia su due pianoforti. La sala Sinopoli del Parco della Musica era stata riempita come ai bei tempi pre covid da spettatori venuti ad ascoltare questi due loro beniamini. Ma sicuramente erano stati attirati anche dal bel programma, formato da pezzi di facile ascolto e tutt’altro che sconosciuti, ma che non si ascoltano molto spesso dal vivo. 

Sparigllando l’ordine in cui i tre pezzi in programma sono stati eseguiti, cominciamo da Ma mère l’oye  di Maurice Ravel, per la semplice ragione che era quello in cui Rana e Pappano suonavano soli, a quattro mani sullo stesso pianoforte, gomito a gomito. Non c’è bisogno di dire che la Rana ormai non è più una grande promessa ma una grande pianista, e che Pappano è anch’egli un vero pianista, in grado di non sfigurare accanto alla giovane collega. D’altronde Il pianoforte a quattro mani non è certo fatto per esibirsi e gareggiare l’uno con l’altro ma per collaborare. Le diverse doti dei due pianisti emergevano comunque: Pappano era più quadrato e forniva una solida base, mentre la parte della tastiera che spettava alla Rana schiudeva un mondo di colori delicati ed iridescenti. Per quanto bravi siano i due pianisti, la versione per pianoforte a quattro mani sembra inevitabilmente uno schizzo preparatorio della “vera” Ma mère l’oye,  quella che siamo abituati ad ascoltare nell’orchestrazione che Ravel ne avrebbe realizzato in seguito, favolosa non soltanto perché traduce in musica cinque fiabe ma anche e soprattutto per le sue magie sonore. Però era molto interessante ascoltare questa composizione non ricoperta da quei preziosi veli orchestrali, quindi in un certo senso nuda, cogliendone così più chiaramente l’intelaiatura melodica, ritmica e armonica.

Seguiva Il Carnevale degli animali  di Saint-Saëns, in cui Rana e Pappano suonavano ancora l’una accanto all’altro, ma su due pianoforti diversi, insieme a nove professori dell’orchestra di Santa Cecilia, che vanno doverosamente citati uno per uno perché erano tutti degli ottimi coprotagonisti: Adriana Ferreira (flauto e ottavino), Stefano Novelli (clarinetto), Andrea Obiso e David Romano (violini), Raffaele Mallozzi (viola), Luigi Piovano (violoncello), Libero Lanzillotta (contrabbasso), Edoardo Giachino (harmonica) e Davide Tonetti (xilofono). Il serioso Saint-Saëns si vergognava di questa composizione così divertente e – perché no? – frivola, scritta per una festa di carnevale in casa di amici. Invece qui c’è tutto il meglio di Saint-Saëns, che si disfà dell’eleganza un po’ accademica della sua musica più ufficiale per scapricciarsi con idee ironiche e divertenti e si sente libero di inserire anche alcune piccole ma saporite audacie armoniche e ritmiche, come i continui cambi di tonalità e gli “errori” ritmici del pezzo dedicato a quegli animali che sono i pianisti (ipse dixit).

Ma il culmine del concerto era in realtà collocato all’inizio, il Quintetto n. 2 per pianoforte e archi op. 81  di Antonín Dvořák. Si apre con poche note del pianoforte e prosegue con un brevissimo duetto del pianoforte col violoncello di Luigi Piovano: questo è già bastato a Beatrice Rana a far capire che nella musica da camera si trova a suo agio almeno quanto nei recital solistici e nei concerti sinfonici. Poi arriva il primo ‘tutti’, in cui i volumi dei cinque musicisti non appaiono ben dosati, ma è appena un momento, perché poi prendono le misure - per così dire - dell’acustica della sala e tutto fila benissimo. Soprattutto c’è il vero spirito della musica da camera: cinque eccellenti musicisti che decidono di far musica insieme per il loro diletto, ben consapevoli che tutto va suonato come si deve, con precisione, sincronia ed equilibrio, ma riservandosi un buon margine di spontaneità e di libertà, che è quel che rende viva e palpitante la musica e fa sembrare che nasca sotto i nostri occhi (o orecchie?). Per esempio, un piccolo passaggio in cui viene in primo piano il violino di Andrea Obiso, una meraviglia inattesa che sboccia come un miracolo. Tutto il primo movimento è trascinante nel ritmo e appassionato nel sentimento. I titoli dei due movimenti seguenti rimandano alla musica popolare ceca. La Dumka  è un canto caratterizzato da passaggi improvvisi dall'esuberanza  alla malinconia, che qui prevale e si effonde in un tema ripetuto e quasi accarezzato più e più volte (vi si può apprezzare il caldo suono della viola di Raffaele Mallozzi) con un sentimento nostalgico e intimo, come il ricordo del tepore del camino della casa familiare. Il Furiant  è ovviamente molto vivace, scatenato, a tratti volutamente caotico, come una danza in una festa in cui circoli molto alcol. Nel finale veloce, anzi velocissimo, trionfano la spontaneità e l’ottimismo di fondo che pervadono tutto il Quintetto. I nostri musicisti hanno eseguito benissimo ogni singola nota, ma lo hanno fatto mettendoci anche quella spontaneità e quel calore che sono fondamentali quando si suona un autore “popolare” come Dvořák.

Gli applausi sono stati calorosissimi e alla fine del concerto sono stai ricompensati dal bis del finale del Carnevale degli animali.

 

 

 

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