Alabaster DePlume, jazz e jiu-jitsu

A Blade Because a Blade Is Whole è il nuovo album del sassofonista e poeta inglese Angus Fairbairn

alabaster de plume
Disco
oltre
Alabaster DePlume
A Blade Because a Blade Is Whole
International Anthem
2025

Intervistato qui giusto un anno fa, alla vigilia di una tournée italiana, il sassofonista e poeta inglese Alabaster DePlume – strambo pseudonimo di Angus Fairbairn – disse: “Jazz, cos’è il jazz? Non penso che spetti a me darne una definizione”. 

– Leggi anche: Alabaster DePlume, agit-prop jazz punk

Il suo strumento elettivo e la frequentazione del Total Refreshment Centre, polo londinese al quale approdò emigrando nel 2015 da Manchester, lo associano a quell’ambito, benché egli dia la sensazione di aspirare a una dimensione di “musica totale”, affine alle visioni tramandate da Alice Coltrane e Arthur Russell. 

Ne è ora dimostrazione ulteriore A Blade Because a Blade Is Whole, disco preceduto da un doppio prologo autunnale: la raccolta di poesie Looking for My Value, da cui prendono spunto i testi dei sei brani che ne sono dotati, e l’Ep Cremisan, registrato in buona parte durante una residenza artistica a Betlemme (“L’album era stato scritto prima che iniziasse il genocidio, ma per tutto il tempo ho avuto la Palestina nei miei pensieri”, ha spiegato a riguardo). 

Contravvenendo a quanto fatto in passato, l’opera è frutto di un rigoroso lavoro di composizione, esecuzione e arrangiamento, anziché derivare dal taglia-e-cuci di materiale ottenuto registrando sedute d’improvvisazione. Più che tentare di ricavarlo decifrando l’enigma del titolo, “Una lama perché una lama è tutto” (“Una lama può essere usata per colpire, radere, tagliare, ma anche per svincolarsi e rendersi liberi”, la sua chiosa), il senso narrativo va cercato fra le righe. 

Prendiamo allora “Thank You My Pain”, primo episodio in scaletta nutrito di parole, a detta dell’autore ispirato alla figura del monaco, maestro zen e attivista vietnamita Thích Nhất Hạnh: “Grazie dolore mio per essere tornato di nuovo”, recita in apertura il protagonista su un tappeto di afro funk narcotizzato. È il punto di partenza di un processo di cura e guarigione da lui stesso affrontato meditando e praticando jiu-jitsu, arte marziale evocata in un paio di circostanze: “Form a V” allude a un esercizio del tipo “uno contro tutti” e “Kuzushi” cita una mossa che con minimo sforzo disequilibra l’aggressore. Lo slancio spirituale diventa orazione afona in “Prayer for My Sovereign Dignity”, dove il sax dialoga con gli archi orchestrati da Macie Stewart, come già nell’ouverture “Oh My Actual Days”, corredata dal video dell’artista italo-australiana Rebecca Salvadori, che firma pure la copertina del disco. 

 In “A Paper Man” si apprezza poi la caliginosa ritmica dub tramata da Ruth Goller (basso) e Donna Thompson (batteria) su cui scorre il racconto (“Un uomo di carta accende candele, fa cose che non riesce a gestire”), dopo di che arriva la traccia più jazz in repertorio, “Who Are You Telling, Gus”, primo strumentale di una sequenza centrale conclusa da “Salty Road Dogs Victory Anthem”, introdotto da ghirigori di elettronica vintage. L’ambiente è invece acustico in “Too True”, con la voce ridotta a mormorio (“Canto silenzioso, tu vinci sempre, anche se le canzoni non lo sanno”), e “Invincibility”, numero di folk astratto con fingerpicking di chitarra e flusso di coscienza in forma di monologo (“Il tuo nome rimane una canzone nella mia anima”, dice il verso chiave). 

Chiude il programma “That Was My Garden”: apologia del “mio giardino”, che non è “un parcheggio” né “una scena del crimine”, intonata con aria distratta nel solco modellato al piano da John Ellis, appiglio del successivo crescendo orchestrale, protratto oltre la soglia dei sette minuti e mezzo. È il degno epilogo di un album emotivamente intenso, del quale attendiamo adesso la trasposizione dal vivo: appuntamento il primo giugno al festival torinese Jazz Is Dead!.

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