A Rovigo “Chénier” secondo tradizione

Al Teatro Sociale approda l’opera di Umberto Giordano ma il pubblico latita 

Andrea Chénier (Foto Nicola Boschetti)
Andrea Chénier (Foto Nicola Boschetti)
Recensione
classica
Rovigo, Teatro Sociale
Andrea Chénier
24 Gennaio 2025 - 26 Gennaio 2025

Spettacolo recensitoProsegue a Rovigo la stagione lirica del Teatro Sociale con Andrea Chénier, titolo un tempo molto popolare ma oggi, a giudicare dai vuoti in sala, in declino di interesse. Testimone di un gusto decisamente datato, il sanguigno lavoro di Umberto Giordano richiede uno sforzo produttivo che il teatro rodigino condivide con i teatri di tradizione di Pisa, Lucca, Brescia, Pavia, Como e Cremona. 

Sa molto di antico lo spettacolo allestito da Andrea Cigni con le scene di Dario Gessati, quasi un omaggio a una sapienza artigianale più sensibile al lezioso calligrafismo che alla funzionalità teatrale, e profluvio di costumi di Chicca Ruocco come da libretto. Si apre con un fondale bucolico per una sorta “déjeuner sur l'herbe” dai Coigny (che fa a pugno con la “giornata d’inverno del 1789” del libretto), affollatissima e con pantomima pastorale con due soli danzatori acconciati come il Nižinskij dell’Après-midi d’un faune. Si prosegue con l’immagine della Parigi rivoluzionaria piuttosto fedele alle prescrizioni sceniche originali ma piuttosto farraginosa nei movimenti, mentre il processo al poeta Chénier si svolge fra tricolori e davanti a una tribuna di cittadini furiosi con la stessa didascalica fedeltà a un’idea cosiddetta tradizionale compresa una sostanziale indifferenza alla plausibilità anche minima del gesto teatrale. Nemmeno nel quadro finale con la coppia dei protagonisti davanti a un fondale nero con una grande grata dalla quale si intravvede il cielo è lecito attendersi uno scarto (magari) verso un’astrazione tristaniana, perché invece si resta ben incardinati nella più pervicace delle convenzioni melodrammatiche. 

Autentico manuale di un’idea di verismo musicale altrettanto legata a una certa deleteria tradizione è la realizzazione musicale, guidata con grande foga da Francesco Pasqualetti che, messi da parte i delicati settecentsmi di maniera del primo atto, inevitabilmente abbraccia una certa enfasi che è consuetudine nel Giordano compositore. A quell’idea si rifà anche Michael Spadaccini per il suo stentoreo Chénier disegnato con una vocalità sguaiata e sforzatissima, ma fortunatamente Kim Gangsoon canta e sfodera un fraseggio elegante per il suo Carlo Gérard, anche se poi fa quello che può sul palcoscenico privo di una adeguata direzione scenica. Maria Teresa Leva offre una prova vocale soddisfacente come trepidante Maddalena di Coigny anche se il personaggio esce appena abbozzato. Nei ruoli minori, spiccano la sicurezza vocale e la disinvoltura scenica di Fernando Cisneros nel doppio ruolo di Mathieu e Fléville, la dizione scolpita di Marco Miglietta anche lui nel doppio ruolo dell’Abate e dell’Incredibile, e Shay Bloch che è una Bersi sicura e spigliata. Convince meno Alessandra Palomba, le cui Contessa di Coigny e Madelon soffrono soprattutto per l’usura dello strumento vocale. A loro, si aggiunge il Coro Arché ben preparato musicalmente da Marco Bargagna ma sembra abbandonato a se stesso sul palcoscenico. Dopo qualche impaccio iniziale, l’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta ritrova slancio e offre nel complesso una buona prova. 

Numerosi vuoti fra i 750 posti del teatro rodigino nella prima delle due recite in programma. Il che solleva inevitabilmente la domanda: ma se l’alibi della tradizione non bastasse più? 

 

 

 

 

 

 

 

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