La favola di gesso del figlio conteso
La Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf presenta un nuovo allestimento della rara Der Kreidekreis di Alexander von Zemlinsky
Narra un’antica leggenda cinese che, dovendo decidere quale fosse la madre fra due donne che si contendevano un bambino, un giudice facesse disegnare un cerchio con il gesso attorno al piccolo. La donna che fosse riuscita per prima a portare fuori dal cerchio il bambino sarebbe stata la madre. Per ben due volte una delle due donne strappa all’altra il bimbo ma il saggio giudice decide che la madre è colei che ha rinunciato a contendersi il piccolo, poiché comprende che questa non vuol fare danno al piccolo corpo che da lei è stato generato. Non molto dissimile dal dilemma posto al biblico re Salomone, il soggetto orientale ispirò a Bertolt Brecht il dramma Il cerchio di gesso del Caucaso e, un ventennio prima, al poeta e drammaturgo Klabund Il cerchio di gesso una favola teatrale ripresa pressoché intatta da Alexander von Zemlinsky per la sua opera in tre atti andata in scena per la prima volta a Zurigo nel 1933. Il linguaggio musicale resta solidamente ancorato al modello tardoromatico, piuttosto povero di esotici orientalismi, ma non sono poche le novità di questa partitura, che presenta una riuscita sintesi di teatro musicale e di parola con un uso frequente del melologo o dello “Sprechgesang” anche se smussato dagli eccessi dell’espressionismo musicale, dal quale questo lavoro sembra piuttosto immune.
In questa versione, la contesa vede protagoniste le due mogli del ricco e crudele mandarino Ma, la crudele Yü-Pei e la giovanissima Haitang, riscattata grazie a una congrua somma versata al mezzano Tong. Per sfuggire alla miseria alla quale sembra essere destinata la famiglia dopo il suicidio del padre a causa dell’impossibilità di pagare un balzello proprio al delegato imperiale Ma, la giovane donna viene ceduta dalla madre per denaro al bordello di Tong, dove conosce il giovane e spiantato principe Pao, che però è costretto a cederla al ricco mandarino Ma non potendo competere con le sue ricchezze. Se la bontà di Haitang e soprattutto il figlio frutto del loro amore inatteso riescono a domare la natura malvagia di Ma, non è così per la prima moglie Yü-Pei, la quale, per non essere ripudiata e quindi perdere la pingue eredità del marito, lo avvelena. Con la complicità del corrottissimo giudice Tschu-Tschu, Yü-Pei riesce a far condannare a morte Haitang per l’omicidio del marito e a far dichiarare proprio il figlio nato in realtà da Haitang e Ma, se non fosse che la nomina del nuovo imperatore, il principe Pao, rimette in discussione tutte le sentenze. A Pechino, Pao decide di sottoporre le due presunte madri con il test del cerchio di gesso. Haitang rinuncia alla contesa, Pao sentenzia che è lei la vera madre e per di più dichiara di essere lui il padre del bimbo, nato da un fugace rapporto notturno nella dimora di Ma.
Se i lavori teatrali del compositore austriaco, salvo rare eccezioni, restano merce rara nei teatri, ancor di più lo è questo Der Kreidekreis scomparso rapidamente dalle scene, complice l’infame lista di proscrizione nazista, e ripreso solo una settantina di anni dopo la prima nella stessa Zurigo. Sono seguiti un apprezzato allestimento all’Opéra de Lyon nel 2018 e un altro nella scorsa primavera a Karlsruhe prima del più recente spettacolo andato in scena alla Deutsche Oper am Rhein di Düsseldof. Punta all’essenziale la regia di David Bösch come la semplice scenografia di Patrick Bannwart fatta di una pedana circolare che allude chiaramente al cerchio di gesso del titolo in uno spazio completamente nero abitato da pochi oggetti evocativi: le gabbie delle cortigiane-uccellino nella casa da tè/bordello di Tong, un’enorme gabbia per il palazzo di Ma, degli altissimi scranni per il parodistico tribunale e una semplice pedana circolare con scritte luminose sospese (pace, speranza, giustizia, amore, fortuna) per il palazzo dell’imperatore. Le luci di Volker Weinhart e proiezioni come ombre cinesi dello stesso Bannwart animano la parete circolare nera che definisce lo spazio, aperta sul fondo da una grande porta, dando vita alle vivide immagini di un racconto scenico condotto con esemplare ed efficace linearità. Piuttosto suggestivi anche semplici siparietti video animati come infantili disegni col gessetto che scandiscono le diverse scene del lavoro.
L’ispirazione orientale si ritrova solo negli eleganti costumi di Falko Herold dal fantasioso segno tranne nella dimessa semplicità della tunica indossata da Haitang, riflesso del suo innocente candore, e nel piuttosto scontato conformismo anticonformista di t-shirt e pantaloni cargo per il principe Pao e il Tschang-Ling, il fratello antisistema della protagonista.
Piuttosto riuscita anche la realizzazione musicale, non facile per quest’opera che sollecita una grande prestanza vocale e versatilità anche attoriale ai protagonisti. Efficaci soprattutto le interpreti femminili, dominate dalle notevoli prove di Lavinia Dames, perfetta nel delicato ritratto anche vocale di Haitang, e di Sarah Ferede, altrettanto incisiva nel disegno di una Yü-Pei “femme fatale” dai tratti molto pronunciati. Non meno riusciti anche i ruoli di contorno, come la madre di Katarzyna Kuncio, la balia Romana Noack ma anche la ragazza dell’harem di Tong di Elisabeth Freyhoff nel brevissimo cameo iniziale. Più contrastato, invece, il paesaggio del comparto maschile, nel complesso più sbilanciato sul versante caricaturale già sulla pagina, con le buone prove di Joachim Goltz, un Ma più credibile come rabbonito padre di famiglia, di Werner Wölbern, uno spiritatissimo e istrionesco giudice Tschu-Tschu, ruolo solo parlato, e di Cornel Frey, un Tong in versione ermafrodita forgiato in un cabaret berlinese degli anni di Weimar. Meno efficaci soprattutto sulla prestazione vocale Matthias Koziorowski, un principe Pa piuttosto incolore e in palese difficoltà nel registro acuto, e Richard Šveda, un sanguigno Tschang-Ling ma monocorde sul piano espressivo. Non manca invece di colori la direzione musicale di Hendrik Vestmann alla testa dei Düsseldorfer Symphoniker guidati in modo efficace attraverso l’eterogeneità espressiva di questa strana ma interessante creazione zemlinskyana.
Pubblico folto nella prima parte, un po’ meno nella seconda, ma generoso di applausi per tutti gli interpreti.
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