Il fascino antico e attuale di “Giulio Cesare”

Chiara Muti e Ottavio Dantone parlano del nuovo allestimento dell’opera di Händel che debutta il 17 gennaio al Teatro Alighieri di Ravenna

Chiara Muti e Ottavio Dantone (foto Zani-Casadio)
Chiara Muti e Ottavio Dantone (foto Zani-Casadio)
Articolo
classica

Se si pensa al Giulio Cesare di Georg Friedrich Händel – opera che apre venerdì 17 gennaio (replica domenica 19) la Stagione d’Opera 2025 del Teatro Alighieri di Ravenna in un nuovo allestimento con regia di Chiara Muti e direzione di Ottavio Dantone alla guida dell’Accademia Bizantina – non si può non pensare al libretto di Nicola Francesco Haym, a sua volta tratto dal lavoro di Giacomo Francesco Bussarli.

Händel iniziò molto probabilmente a lavorare a quest’opera nell'estate del 1723, coinvolgendo per il libretto, appunto, lo stesso Haym, già suo stretto collaboratore in opere precedenti di grande successo come Teseo (1713), Radamisto (1720) e Ottone, Re di Germania (1722). Nato a Roma da genitori tedeschi, Haym, abituato a rielaborare libretti italiani preesistenti adattandoli alle esigenze del pubblico inglese dell'epoca, per il Giulio Cesare prese come base il libretto di Bussani, scritto nel 1676 per il compositore Antonio Sartorio. Seguendo la sua abituale prassi, Haym apportò significative modifiche inserendo nuove arie e riducendo la quantità di recitativi, che spesso risultavano di difficile comprensione per gli spettatori inglesi. L'opera fu messa in scena per la prima volta il 20 febbraio 1724, segnando un nuovo trionfo nella collaborazione tra Händel e Haym, che proseguì anche negli anni successivi con lavori come Tamerlano (1724) e Rodelinda (1725).

Giulio Cesare (foto Zani-Casadio)
Giulio Cesare (foto Zani-Casadio)

In vista del debutto di questo nuovo allestimento del Teatro Alighieri di Ravenna – realizzato in coproduzione con Teatro Comunale Pavarotti-Freni di Modena, Fondazione Teatri Piacenza, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Teatro del Giglio di Lucca e Fondazione Haydn di Bolzano e Trento – e che prevede tra le voci impegnate quelle di Raffaele Pe, Marie Lys, Davide Giangregorio, Delphine Galou, Filippo Mineccia, Federico Fiorio, Andrea Gavagnin e Cemente Antonio Daliotti, abbiamo rivolto qualche domanda proprio a Chiara Muti e a Ottavio Dantone.

Chiara Muti (foto Silvia Lelli)
Chiara Muti (foto Silvia Lelli)

Chiara Muti, quali sono le caratteristiche del Giulio Cesare di Händel e Haym sulle quali viene costruita la sua lettura registica?

CM «In genere la regia d’opera deve sottostare a una serie di condizionamenti, limiti e codici di cui tener conto: la priorità spetta alle voci e alla musica, che non va mai tradita. In un certo senso, il regista si trova con una parte del lavoro già fatto e fissato in partitura, entro di essa però deve cogliere e tracciare la propria visione, senza mai perdere di vista autore, luogo, momento storico. Certo, padroneggiare il testo musicale è fondamentale, come di grande aiuto è l’esperienza di attrice soprattutto nel modellare il gesto e l’espressione dei cantanti… Per quanto mi riguarda, tendo a cercare di sentire una sorta di “onda”, che conduca tutti verso un intento comune: con una metafora marina, se qualcuno non “surfa” con gli altri crea disarmonia. Per questo sono meticolosa nel lavoro con ciascuno degli interpreti, non lascio nulla all’improvvisazione e, pur assecondando le inclinazioni dei singoli, creo una vera e propria “partitura dell’azione scenica”. In questo caso mi muovo attraverso un gioco di simboli: chi riuscirà ad accaparrarsi la corona si garantisce l’immortalità. È Giulio Cesare, l’eroe, ed è suo il volto che come un puzzle si ricomporrà alla fine, ma anche lui di fronte all’amore si rivela fragile: di fronte a Cleopatra si trasforma in asino come Bottom all’apparizione di Titania in Sogno di una notte di mezza estate. Ma tra i rimandi shakespeariani emerge anche Sesto che allude alla figura di Amleto nell’ostinazione frustrata di vendicare il padre… un gioco di immagini e allusioni».

Giulio Cesare (foto Zani-Casadio)
Giulio Cesare (foto Zani-Casadio)

A distanza di poco più di trecento anni dalla sua prima esecuzione, come riesce quest’opera – che unisce mito, storia ed espressività barocca – a parlare ancora al pubblico di oggi?

CM «Riesce in virtù della sua insospettabile modernità. Un carattere che risiede prima di tutto nel fatto che è priva, come in genere l’opera barocca, di quella “polvere” che è più facile trovare depositata sul melodramma ottocentesco. E soprattutto è un’opera attraversata da una assoluta convergenza e corrispondenza tra suono, vocalità e gesto scenico, una caratteristica che i cantanti formati a questo repertorio sanno tradurre in uno straordinario dinamismo dell’azione. Credo poi che la sua modernità stia anche nella frenesia con cui si susseguono i cambiamenti di registro: arie che passano dalla pietà al riso, dall’ironia alla sensualità amorosa, dall’ira allo sconforto… Un vorticare che quasi non permette di concentrarsi sul singolo momento, un po’ come accade – e il paragone può sembrare ardito – nella follia dello scrolling al cellulare, passando da un video all’altro, da una notizia all’altra… In fondo, all’epoca all’opera si andava per svagarsi, la riflessione più profonda era riservata al teatro di parola, a Shakespeare, il cui ricordo era ancora vivo – in questa regia come ho detto utilizzo proprio visioni shakespeariane. Infine, sfacciatamente moderna è la dimensione di gioco che sempre dobbiamo tener viva nel barocco: mai prendersi troppo sul serio, mai rinunciare all’ironia e a gettare uno sguardo da fuori e, infine, mai cercare di inseguire un inutile e noioso realismo».

Ottavio Dantone (foto Silvia Camporesi)
Ottavio Dantone (foto Silvia Camporesi)

Dopo il debutto nel febbraio 1724 al King's Theatre di Londra e una circuitazione – con alcune rivisitazioni –tra Parigi, Brunswick e Amburgo fino alla prima metà del Settecento, Giulio Cesare è stato poi riscoperto a partire dalla prima metà del secolo scorso, confermandosi a oggi una delle opere più amate di Händel. Ottavio Dantone, quali sono gli elementi distintivi dell’edizione critica a cura di Bernardo Ticci adottata per questa produzione?

OD «Realizzare un’edizione critica comporta sempre un lavoro molto complesso, perché vanno presi in considerazione i vari ed eventuali testimoni manoscritti ed editoriali. Inoltre, bisogna prendere molte decisioni riguardo a quelli che sono o che potrebbero essere errori piuttosto che scelte musicali del compositore. Nel caso del Giulio Cesare, ad esempio, dopo la prima esecuzione del 1724 ci furono diverse altre rappresentazioni dove Handel apportò modifiche musicali o anche alla tessitura dei ruoli vocali. Per avere la massima autonomia di scelta artistica, negli ultimi anni abbiamo deciso, con la collaborazione di Bernardo Ticci, di realizzare sempre nuove edizioni critiche per le nostre produzioni. Nel caso del Giulio Cesare Ticci si è basato direttamente sul primo manoscritto autografo del 1723 conservato nella British Library, sul quale Händel aggiunse, nel corso della stesura, qualche variante o correzione. Naturalmente, come in tutte le partiture dell’epoca, non sono indicate in maniera particolareggiata tutte le dinamiche, le articolazioni o anche la strumentazione, soprattutto del basso continuo. Tutto questo viene dedotto dalle conoscenze sulla prassi, l’estetica dell’epoca e il rapporto fra Musica, parola e Retorica».

Giulio Cesare (foto Zani-Casadio)
Giulio Cesare (foto Zani-Casadio)

Quali sono a suo parere i caratteri salienti di quest’opera sia dal punto di vista vocale sia sul frangente strumentale?

OD «Händel si impegnò molto nella composizione di quest’opera. La musica è praticamente tutta originale e di qualità elevatissima, la strumentazione è molto ricca e variegata, anche in relazione ai caratteri dei ruoli e delle situazioni drammatiche. Ci sono momenti di incredibile suggestione emotiva nei recitativi accompagnati, come nel celebre assolo di Cesare “Alma del gran Pompeo, dove la musica descrive mirabilmente un’intensa riflessione filosofica sulla vita e la morte, oppure in quello di Cleopatra nel ultimo atto “Voi che mie fide ancelle”, commovente momento di abbandono prima della fine imminente. Ma in realtà, la caratteristica di quest’opera è quella di un incredibile equilibrio formale, musicale e drammaturgico dove tutto sembra funzionare alla perfezione, erigendo questo titolo a modello di sinestesia artistica nell’ambito del melodramma settecentesco».

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