Compositore, performer, progettista culturale e didatta, Francesco Giomi ha avviato il suo percorso a Firenze alla fine degli anni Ottanta, oggi ricopre il ruolo di docente al Conservatorio di Bologna e di direttore di Tempo Reale, il centro di ricerca musicale fondato da Luciano Berio con cui ha a lungo collaborato. In questi decenni ha attraversato ambiti diversi dell’esperienza musicale elettroacustica, dalla musica acusmatica all’improvvisazione, dalle installazioni sonore alla danza, fino alla concezione di progetti collettivi di grandi dimensioni.
Da tempo avevamo in programma questo dialogo con Francesco Giomi sul suo libro Musica imprevedibile per i tipi di Arcana Edizioni. Dopo l’intervista su questo stesso giornale a Caterina Barbieri nuova curatrice di Biennale Venezia Musica che con Giomi ha studiato al Conservatorio di Bologna una quindicina di anni fa, ci pare interessante aggiungere il suo autorevole punto di vista sul lavoro musicale della contemporaneità viva.
Francesco Giomi parliamo di questo tuo lavoro saggistico secondo me importante nello scenario bibliografico sulla musica contemporanea, e non solo nel cerchio ristretto dell’improvvisazione, perché mostri come questa, oltre che da sempre praticata come elemento essenziale e direi, esistenziale, del fare musica, sia collegata e intrecciata con rapporti di causa ed effetto alle avanguardie novecentesche, almeno dagli anni 40 in poi. Mi piace poi che sia un libro frutto di un dottorato di ricerca e con i crismi del lavoro accademico, ma al tempo stesso anche pragmatico, con spunti di viva pratica sul training improvvisativo.
«Sì dici bene sulla nascita accademica, ma l’intento a me più caro è il tentativo di farne un manuale per musicisti, per improvvisatori, sia per dare prospettive storiche, analitiche e metodologiche, che per proporre indicazioni pratiche, possibili strade per lavorare sull’improvvisazione libera elettroacustica. Pratiche focalizzate soprattutto sul fare musica in gruppo, perché non ho voluto entrare nei problemi e nei dettagli dell’improvvisazione solistica, con tutte le infinite sfaccettature che implica, tecnico-compositive o perfino psicologiche; su questi aspetti esiste già molta letteratura del resto. E ti dirò che nel campo per me più appassionante le esplorazioni sono abbastanza poche, ne ho trovate solo su singoli aspetti o su particolari stili dell’improvvisazione collettiva, ma lavori più sistematici credo di non averne letti molti».
Infatti un grande merito del libro trovo sia la mappa di un panorama che possiamo dire caotico in senso buono, perché molto di quanto tratti accade negli stessi anni, ma quando si descrivono gli eventi poi vanno messi in ordine, e mi pare che un ordine e una logica tu riesca a estrapolarla.
«Mi sono deciso ad approfondire e dare una prospettiva alla mia pratica di performer anche perché da 4 anni al Conservatorio di Bologna ho promosso il percorso accademico di Biennio di Improvvisazione elettroacustica, unico in Europa fra l’altro. Partirei dalla schematica distinzione che utilizziamo fatta da George Lewis: Euro-logica e Afro-logica, con i grandi nomi di Charlie Parker da un lato, John Cage e Stockhausen dall’altro, e li chiamerei, se mi consenti, i grandi influencer del secolo passato perché hanno generato movimenti e scuole che influenzano tuttora l’agire di moltissimi performer, compositori e interpreti. E vorrei anche aggiungere una città
italiana, che nel mio libro viene evidenziata come centro propulsivo fondamentale, che è Roma. Ci siamo nutriti di storie ed esperienze Milano-centriche, soprattutto per la musica elettronica perché lo studio di Fonologia con Berio, Maderna, Nono ha dato un imprinting anche un po’ mitologico a quegli anni così legati anche a Darmstadt e ai movimenti europei, ma se si va a guardare i dettagli e a studiare la scena romana, si scopre un crogiuolo di esperienze e di incontri di fecondità vivissima, e dagli stessi anni 60 in poi, soprattutto per il campo dell’improvvisazione elettroacustica».
Per l’elettronica su supporto e l’uso creativo di certa tecnologia ci sono però compositori come Giorgio Nottoli, pur approdati poi a Roma, che passano dallo studio milanese. E poi allora consideriamo anche Pietro Grossi a Firenze, o quello che succede a Padova.
«Certo, ma se guardiamo all’elettronica dal vivo, anche grazie a una serie di musicisti americani che vivono o passano da Roma in quegli anni, ho trovato i lampi creativi romani di immenso potere ispirativo. Esperienze che condizioneranno poi molta parte di quello che succederà in altre parti d’Europa».
Adesso c’è una domanda che vorrei farti, forse un po’ accademica: puoi tracciare una periodizzazione nella materia che tratti, dagli anni 40 di Cage, diciamo? Anche considerando i lavori, non solo i compositori e le loro vite, e anche i lavori di uno stesso autore, perché lo stesso Cage degli anni 70 è assai diverso dai suoi primi esperimenti.
«Mi sono fatto l’idea che dagli anni 50 alla fine dei 70 siano 30 anni di avanguardia pura, scoperte, opere fondative, esperimenti che hanno prodotto una base direi non canonica, ma fondamentale nel senso che sono fondamenta su cui tutti noi abbiamo poi lavorato, costruendo e rielaborando quelle idee basilari. Moltissimo è stato fatto in quegli anni, anche nel campo dell’elettronica dal vivo, per fare qualche esempio: segnali cerebrali catturati, fotoresistori che con la luce modificano la spazializzazione del suono, esperienze di intelligenza artificiale condotte da George Lewis negli anni 80, e poi sempre in quel periodo la nascita della cosiddetta conduction di Butch Morris. Esperienze tecnologiche da un lato, dall’altro un nuovo modo di praticare l’improvvisazione collettiva».
Un’altra mia annotazione è quella sul taglio manualistico per alcune pratiche, per esempio su Butch Morris e le sue tassonomie gestuali, ma anche su esperienze precedenti, e a questo proposito ti chiedo se hai in programma uno spin-off del libro, un manuale vero e proprio alla Individuum / Collectivum di Globokar. Schede per l’improvvisazione, eserciziario.
«Sì, hai citato un libro poco conosciuto degli anni 80 che trovo interessantissimo perché è una sorgente per generare improvvisazioni e anche per il lavoro d’insegnamento, ma per fortuna c’è anche letteratura più recente di cui do conto, ad esempio le applicazioni dell’atmosferologia, le idee di Mirio Cosottini, Walter Prati, con i loro studi sulla perfomance e sul silenzio. Ma anche il capitolo in cui descrivo e analizzo più a fondo alcune esperienze significative che sono quelle della musica indeterminata di Cage e della musica intuitiva di Stockhausen, che fra l’altro è l’ambito meno esplorato del suo lavoro; e poi il grande personaggio inglese Cornelius Cardew, sul quale vorrei citare Morton Feldman: «…qualsiasi direzione la musica moderna prenderà in Inghilterra, arriverà da Cardew, grazie a lui, per causa sua; se nuove idee nella musica sono praticate oggi come movimento in Inghilterra è stato perché lui ha agito come forza morale». Di Cardew vorrei anche sottolineare il lavoro di promozione e didattica, che mi sembra straordinario, a partire dalla fondazione della Scratch Orchestra; davvero una figura cui mi ispiro molto per il lavoro in Conservatorio».
E infatti da qui nasce l’ultima delle mie domande, perché il quarto capitolo riguarda le tue personali esperienze sul silenzio, la conduction e le interpretazioni di grandi pagine delle avanguardie storiche (ad esempio Variations di J. Cage): quanto contiguo è il lavoro in Conservatorio a quello di Direttore artistico di Tempo Reale, in che modo lo puoi sintetizzare per i nostri lettori?
«Ti dirò che la mia ambizione è quella di ‘costruire’, quindi mi piace collegare le esperienze di Tempo Reale, le grandi produzioni e le opere fondamentali delle avanguardie storiche, al lavoro sul territorio: oltre che l’attività didattica in Conservatorio, residenze, seminari, borse di studio promosse con Tempo Reale. E benché Firenze abbia radici di più vecchia data, Bologna è città vivacissima, il lavoro proprio sull’improvvisazione elettroacustica si è ben diffuso in città riverberandosi sia negli strati underground che nei contesti più accademici. Ho la speranza di contribuire a formare generazioni di musicisti, oltre che di talento, consapevoli e portatori di idee nuove».
Questa speranza condivido, certamente con buona parte di chi ci legge. Buon lavoro, Francesco Giomi.
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