In Veneto il Natale è di Poulenc

Al Teatro Sociale di Rovigo va in scena La voix humaine e a Padova l’OPV propone L’histoire de Babar

La Voix humaine (Foto Nicola Boschetti)
La Voix humaine (Foto Nicola Boschetti)
Recensione
classica
Padova, Auditorium “Cesare Pollini”, Rovigo, Teatro Sociale
La Voix humaine , L’Histoire de Babar, le petit éléphant
14 Dicembre 2024 - 22 Dicembre 2024

Curiosa coincidenza: Francis Poulenc torna protagonista in due appuntamenti dei cartelloni musicali in Veneto, proprio a ridosso del Natale. Sebbene non vi sia nulla di esplicitamente natalizio nelle proposte, l’occasione è il 125° anniversario della nascita del compositore, una ricorrenza passata piuttosto inosservata nel nostro Paese. L’Orchestra di Padova e del Veneto, nell’ambito del programma OPV Families&Kids, propone all’Auditorium Pollini L’histoire de Babar, destinato a un pubblico composto in gran parte da bambini. L’estro del direttore Marco Seco e la provata esperienza dell’attrice Licia Maglietta riescono a catturare l’attenzione per circa un’ora, grazie anche all’intelligente scelta di aprire il concerto con l’Allegro con fuocodalla Sinfonietta di Poulenc. “J’ai esquissé une série de commentaires musicaux d’après Les aventures de Babar. Je pense les écrire avec l’espoir d’amuser les grands également!” auspicava il compositore, e a buon diritto: un contributo significativo alla popolarità dell’opera è venuto dalla coloratissima orchestrazione di Jean Françaix del 1962, scelta anche dall’OPV. Questa orchestrazione trasforma la semplice favola dell’elefantino Babar, orfano precoce ma baciato da improvvisa fortuna, in una delle tante affascinanti “guide all’orchestra” per gli ascoltatori più piccoli. 

Scelta opposta, invece, per l’altro Poulenc, quello de La voix humaine, presentato al Teatro Sociale di Rovigo in versione scenica ma con il solo pianoforte in buca, una soluzione che il compositore non aveva mai autorizzato in vita. La versione per pianoforte solo è stata infatti approvata dalla nipote di Poulenc, Rosine Seringe, soltanto una quindicina di anni fa. Inevitabilmente, si perde la ricchezza coloristica della scrittura orchestrale, concepita dal compositore per la sua trasposizione in “tragédie lyrique” del celebre monologo di Jean Cocteau. Tuttavia, la riduzione al solo pianoforte crea un’atmosfera più intima e, in un certo senso, più equilibrata, enfatizzando il rapporto tra la musica e l’interprete unica. In questa versione, emerge con maggiore rilievo l’indagine psicologica e il solipsismo della protagonista, che, più che dialogare con un invisibile interlocutore – un amante che non ha né volto né voce – sprofonda in un delirio psicotico dal tragico epilogo.

Sembra essere proprio questa la chiave interpretativa scelta dal regista Gianmaria Aliverta, che torna al monodramma di Poulenc una decina d’anni dopo il suo allestimento veneziano, quando lo aveva presentato come seconda parte di un dittico “polar” insieme al Diario di uno scomparso di Leoš Janáček. Nel nuovo allestimento, firmato da Aliverta anche per scene e costumi (l’espressivo disegno luci, invece, è di Fabio Barettin) e ancora più essenziale di quello veneziano, l’impianto concettuale resta pressoché invariato: una lettiga e due file di sedie montate su barra evocano un ambiente ospedaliero, così come la flebo alla quale la protagonista è attaccata e che continua a staccarsi, richiedendo l’intervento di un’infermiera. Quest’ultima sostituisce simbolicamente l’ormai anacronistica operatrice telefonica, incaricata di ripristinare la comunicazione continuamente interrotta, come il tubicino della flebo sostituisce il filo dei vecchi telefoni, ormai scomparso nei moderni cellulari (che usa anche la donna), metafora del legame fragile e ormai spezzato tra i due ex amanti. 

Se l’uomo resta una presenza invisibile nell’originale di Cocteau e Poulenc, sul palcoscenico invece è presenza fisica benché muta: all’inizio, per coprire pietosamente la donna con un cappotto, quasi a prenderne congedo, e alla fine, come cadavere, quando, precipitando gli eventi, anche la donna si suicida con un revolver. Questa conclusione cruda aggiunge poco e rischia anzi di indebolire la forza dell’idea drammaturgica alla base. 

In un ruolo che richiede una vasta gamma espressiva ancor prima di particolari doti vocali, Julie Cherrier Hoffmann offre una prova discreta, soprattutto sul piano del canto. Buona anche l’intesa con il pianista Davide Cavalli, coprotagonista silenzioso della serata, ma non certo nelle cromie armoniche dell’inquieta scrittura pianistica di Poulenc.

Pubblico non numeroso, ma partecipe e caloroso negli applausi. Merita un plauso anche la scelta di uscire dai confini tradizionali del melodramma ottocentesco, a cui i teatri di tradizione sembrano spesso autocostringersi, salvo rare e gradite eccezioni.

 

 

 

 

 

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