Il Massimo Bellini chiude l’anno con La Gioconda
A Catania torna il titolo di punta di Ponchielli, in un allestimento complessivamente positivo
Sul palcoscenico del Teatro Massimo Bellini, La Gioconda è apparsa dal secondo dopoguerra oggi con cadenza più o meno quindicennale: una cadenza da ‘repertorio ricercato’, che ha reso lodevole il suo ritorno a chiusura di stagione in un allestimento complessivamente positivo, utile ad apprezzare la tanta bella musica che ne sostanzia la partitura, e anche le doti di buon compromesso drammaturgico con gli spunti del libretto di Boito. I contrasti di situazione tra leggero e tragico, l’esasperazione nel pathos di alcuni passaggi drammatici (l’ormai celebre Danza delle ore, oltre ai suoi propri pregi, ha una precisa funzione contrastiva nella dinamica del terzo atto, governata dal personaggio di Badoero), la capacità di ascolto e rifrazione - nella scrittura di Ponchielli - di elementi ampiamente verdiani o francesi ma pure episodicamente – e giudiziosamente – wagneriani, rendono il lavoro tanto interessante quanto avvincente; ciò al netto di alcuni tratti dal gusto melodrammatico più tradizionale, che il maggior allievo di Ponchielli ha saputo superare o riformulare.
Tra gli interpreti catanesi visti e ascoltati, ha spiccato il Barnaba di Franco Vassallo: personaggio motore di tutta l’azione, è stato reso con incisività e insieme misura di disegno teatrale, nonché con mezzi vocali ragguardevoli sciorinati tanto nei recitativi quanto nella brillantissima esecuzione del numero solistico ‘travestito’ del secondo atto; bravissima Anna Pirozzi, una Gioconda ben modellata tra sensibilità e volitività – fino al sacrificio – in tutta l’opera, con vetta emotiva nella giustamente applauditissima scena dell’ultimo atto; mirabile pure la Cieca di Agostina Smimmero, catturante e molto solida nella sua aria dell’atto iniziale. Hanno retto bene anche gli altri interpreti principali, soprattutto negli insiemi, sebbene la temibile parte di Enzo Grimaldo (Ivan Momirov) meritasse qualche mezza tinta in più, quella di Badoero (George Andguladze) maggior corposità di registro grave nella scena solistica, mentre la precisione di Anastasia Boldyreva avrebbe beneficiato di uno più scavato smarrimento caratterizzante del personaggio. Ben condotta e plasmata nelle sonorità l’Orchestra del Teatro da Fabrizio Carminati, una sicurezza in questo repertorio, assieme al Coro guidato da Luigi Petrozziello.
La regia di Francesco Esposito ha tratto ottimo profitto della spettacolarità figurativa e dell’efficacia in chiave tableaux-vivants delle proprie scene, sfruttandone al meglio le articolazioni in piani spaziali ed evitando lo schiacciamento con la protensione in proscenio di una pedana alzata – ora balcone ora talamo – quale fuoco possibile dell’azione; anche lo spostamento settecentesco di quasi tutti i costumi – Gioconda a parte… – ha dopotutto ben funzionato. Peccato che un candelabro in posizione malandrina, abbattuto negli spostamenti, ne abbia pregiudicato la piena, orrorifica trasformazione in tomba nel terzo atto, e che un paio di effetti – la luna tramontata nell’atto al porto, il ‘prodigio’ a inizio danza – non abbiano incontrato realizzazione (al riguardo, va però ricordato che il Massimo Bellini non dispone di un corpo di ballo stabile, per cui la coreografia della Danza delle ore non poteva contare su figure d’assieme numerose e complesse).
Pubblico plaudente e soddisfatto, benché non nutrito.
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