Chi è Jimmy Villotti? C’è da immaginare che per molti lettori sia un nome non troppo conosciuto. Eppure, ha avuto un ruolo di rilievo nella musica italiana per un buon mezzo secolo. Forse non un ruolo da protagonista, ma una presenza costante, senza la quale le cose non sarebbero andate nello stesso modo.
Jimmy Villotti ci ha lasciati esattamente un anno fa, il 6 dicembre 2023. Esce ora Jimmy Villotti, raccolta definitiva per (ri)scoprire la sua musica.
Classe 1944, bolognese di adozione, inizia a studiare pianoforte e chitarra fin da bambino, e negli anni Sessanta entra nel suo primo gruppo, i Meteors, uno fra i tanti della scena rock-beat dell’Emilia-Romagna. Nei Settanta, gli anni del prog rock, fonda i Jimmy M.E.C., che potrebbero avere uno sbocco commerciale degno di nota: sull’onda della vittoria a un concorso di Teleradio Montecarlo, la Fonit Cetra offre alla band un contratto discografico. Non se ne farà nulla. Anzi: l’esordio di Villotti su album, del 1978, è un’ambiziosa opera rock, Giulio Cesare, che coinvolge la big band del Conservatorio di Bologna. Ovviamente troppo ambiziosa e complessa per raccogliere consenso.
Ma Jimmy Villotti è così, prendere o lasciare. La sua formazione gli fa prediligere musicalità inconsuete: il jazz classico, Herbie Hancock, Frank Zappa, roba che certo non va d’accordo con le richieste commerciali di chi lo vorrebbe far suonare. Ma la svolta è dietro l’angolo: frequentando L’Altro Mondo, celebre locale di Rimini dove negli anni Ottanta passano musicisti di ogni tipo, trova quel contesto di libertà espressiva che gli serviva. In quel decennio per Villotti succede di tutto. Diventa amico fraterno di Lucio Dalla; collabora con Augusto Martelli e Andrea Mingardi; produce Pesissimo! degli Skiantos; incide perfino un discreto album solista, Jimtonic (1984).
Ma soprattutto consolida la sua fama di chitarrista provetto, dando il suo contributo ad artisti come Francesco Guccini, Claudio Lolli, Sergio Endrigo, Ornella Vanoni, Gianni Morandi e gli Stadio (è sua la intro di chitarra classica nella famosa “Grande figlio di puttana”).
Ciliegina sulla torta: diventa collaboratore fisso per un decennio, fino al ’91, di Paolo Conte, che gli dedicherà il pezzo “Jimmy, ballando” sul celebrato Aguaplano (1987).
Negli anni Novanta Jimmy Villotti ha una fama ormai consolidata, che gli consente di svolgere ruoli importanti nei debutti discografici di Luca Carboni e di Vinicio Capossela. Ma lui preferisce sempre mantenere un ruolo defilato: quello che gli consente di suonare per strada con Lucio Dalla al Ferrara Buskers Festival del 1989, o di improvvisare una partita di pallone quando capita, da grande appassionato di calcio quale è; o addirittura di dare sfogo alle sue pulsioni di autore di narrativa (il suo lascito alla fine sarà notevole: ben otto volumi pubblicati).
Non di meno, è quello il periodo più prolifico per quanto riguarda le incisioni discografiche, con una mezza dozzina di album prodotti tra il 1993 e il 2004. Ed è soprattutto su questo periodo che va a pescare la raccolta recentemente pubblicata (su doppio cd e doppio vinile) da REA/Universal, con restauro e rimasterizzazione curati da Mauro Malavasi.
Un album consigliatissimo per riscoprire il lato più squisitamente musicale di questo personaggio, che suona come una sorta di Bugo ante litteram (a tratti è clamorosa la somiglianza anche del timbro vocale), un irresistibile mix cantautorale tra Fred Buscaglione, Paolo Conte e Pino D’Angiò.
Curioso che un appassionato di jazz come Villotti, uno che ha sempre amato la ricerca e la sperimentazione, per i suoi album abbia optato per una forma di pop, certo sofisticato e poco radiofonico, ma sicuramente pop. Tant’è: questo disco è godibilissimo, altro che. Particolarmente ficcanti i brani dominati da un sottile groove funky (“Drin drin”, “Orazio”, “Uccellino”), ma seducono anche quelli impregnati di ironico romanticismo (“Amare”, con la partecipazione di Lucio Dalla, “Bambù”, “Skywalker”) o ironici e basta (“Titti”); ci sono poi pezzi dall’umore decisamente laidback (“Il vuoto dell’estate”, il reggae delizioso di “Sorridere si può”) e qualche reminiscenza new wave (“Crash”, un raro estratto da Jimtonic, “Futurshow”, con un’inusuale predominanza di synth) o di jazz spettrale (“Il kid”, “Sorella”).