E così è successo: Sanremo è tornato noioso, è tornato vecchio. Forse non ha mai smesso veramente di esserlo, ma qualcosa nell’edizione 2025 sembra essere cambiato, qualcosa sembra essersi rotto – nella macchina del Festival per come avevamo imparato a conoscerla negli ultimi anni, oppure in noi che lo ascoltiamo e lo seguiamo.
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I Festival del 2023 e del 2024 erano stati sintetizzati da molti commentatori – me compreso – come edizioni di restaurazione dopo una fase di innovazione e svecchiamento, diciamo all’incirca fra le edizioni di Baglioni (2018 e 2019) e le prime di Amadeus.
In quegli anni, Sanremo si era presentato e ripensato come evento (anche) per giovani e giovanissimi; era diventato una vetrina – parzialissima, per carità – del nuovo musicale che attraversava il pop italiano. La ragione aveva più a che fare con il sistema dei media in cui Sanremo esiste che non con la presenza di direttori artistici illuminati e musicalmente aperti (per quanto, evidentemente, Carlo Conti non sia né l’una né l’altra cosa). Negli anni immediatamente precedenti si era consumata la rivoluzione dello streaming e dei social media: anche in Italia, gli introiti provenienti dalle piattaforme (Spotify su tutte) valevano più di un mercato fisico in emorragia da anni. Se con i dischi non si facevano più soldi, la funzione di Sanremo come vetrina della discografia era virtualmente nulla. Le major vivevano il Festival più come occasione di raccolta di profitti editoriali: piazzare una canzone nel prime time sanremese per cinque serate significava monetizzare, intanto, con la sola presenza in gara; e poi andare all’incasso grazie al mercato delle radio. In questo ecosistema l’interesse a rischiare con prodotti diversi, nuovi, giovani era vicino allo zero: sono gli anni in cui si gratta il fondo del barile dei talent show, gli anni dei Sonohra, dei Valerio Scanu, dei Giò di Tonno.
In un mondo dominato dallo streaming le strategie cambiano. Sanremo diventa vetrina per fenomeni che già si sono affermati (o si stanno affermando) sulle piattaforme, in un momento in cui le piattaforme sono terreno di conquista dei giovani, sia cantanti che ascoltatori. Per qualche edizione, essere un giovane in gara a Sanremo non significa essere l’imbarazzante vincitore di qualche talent o di Sanremo giovani, ma l’essere già passati attraverso il mercato ed essersi confrontati con il pubblico.
Il Festival è dunque servito per portare questi fermenti a un’utenza generalista e intergenerazionale, mentre le vecchie generazioni poco a poco esploravano le piattaforme e la nuova musica. Pinguini Tattici Nucleari, Coma_cose, Ghemon, La Rappresentante di Lista, Lo Stato Sociale, Madame, Willie Peyote, Mahmood, Blanco, Motta, Colapesce e Dimartino, Achille Lauro hanno fatto il loro primo festival in questi anni, affermandosi ben oltre la cerchia dei fan che avevano prima di andare a Sanremo. Molti di loro sono ritornati in gara nelle ultime edizioni riproponendo la stessa cosa – ma più vecchi – e diventando la parodia di se stessi. Basta pensare alla parabola artistica dei Coma_cose, partiti come icone hipster pop-rap (“Anima lattina”) e finiti a fare i ballettini come una versione gen-Z di Al Bano e Romina.
O ad Achille Lauro. Ecco: Lauro è forse il musicista che meglio sintetizza il passaggio in corso, per come è passato da avanguardia a retroguardia nel giro di un piano quinquennale appena. Emerso dal vivace calderone della trap insieme a colleghi come Ghali, ha fatto il suo primo Sanremo da rapper già affermato ma sconosciuto al grande pubblico (2019, “Rolls Royce”). Lo ritroviamo oggi come versione queer di Antonello Venditti, in costante emorragia di pubblico e di idee e costretto a stare al Festival solo per continuare ad esistere.
Anche il paragone con Ghali è utile. Ghali arriva al suo primo Festival da concorrente nel 2024 (“Casa mia”), e ci arriva non come giovane sulla rampa di lancio, ma come musicista già in declino, cui solo Sanremo può garantire un boost necessario a giustificare gli investimenti della casa discografica. Ci arriva non come trasgressivo trap boy inviso ai sovranisti e idolo delle periferie (il Ghali del 2016-2017), ma come versione colored di Jovanotti, con balletti e pupazzone di alieno in gommapiuma.
La desolazione del Festival 2025 è in effetti evidente se la applichiamo al genere che più di tutti ha egemonizzato le classifiche italiane nell’ultima decade, ovvero il rap. Che, risciacquato nel Mar Ligure, ne esce stinto come mai prima. Se già negli scorsi anni rapper affermati come Lazza o Geolier avevano concesso molto alla formula-Festival, infarcendo i loro brani di co-autori “esperti” e di ritornelloni testosteronici, quest’anno è andata pure peggio. Di Lauro si è detto. Tony Effe fa lo stornellatore autotunizzato, Fedez è ormai più un fenomeno di costume che un musicista, Willie Peyote è il cosplayer di un rapper intelligente. Persino la cordata old school messa su da Shablo, con Tormento e un maestro riconosciuto come Guè propone una specie di autoparodia. Cioè, mette in scena il rap per come l’ascoltatore medio di Sanremo sia immagina che sia…
…il problema è che l’ascoltatore medio di Sanremo è cambiato. Questo almeno ci dicevano i dati Rai degli ultimi anni, sbandierati dall’azienda come conquiste epocali su cui costruire il Sanremo del futuro. Ora una fascia di età che prima si sarebbe amputata un arto piuttosto che rimanere a casa con i genitori a guardare RaiUno è rilevante nel successo del Festival: interagisce sui social, ascolta su Spotify, usa RaiPlay. Sanremo inciderà – al ribasso – sui gusti giovanili, convincendo una nuova generazione che il rap sia questo, e che Cristicchi sia un bravo cantautore e non un pornografo dei sentimenti? Oppure, naturalmente, i giovani smetteranno (di nuovo) di guardare Sanremo?
Sanremo inciderà – al ribasso – sui gusti giovanili, oppure, naturalmente, i giovani smetteranno (di nuovo) di guardare Sanremo?
Il problema è che Sanremo è esistito, per molti decenni, come simbolo di un certo mainstream della canzone italiana. Esisteva escludendo certe musiche, e certe musiche erano ben liete di esserne escluse. Anzi, traevano forza proprio dal loro essere “indipendenti”, qualunque cosa significhi. Potevano prosperare, con tutte le loro difficoltà, lontano dalle telecamere della Rai, in un circuito alternativo fatto di locali, di club, di festival, di premi. Sanremo era il nemico, era un luogo squalificante: quando ci andarono gli Afterhours, nel 2009, il mondo indie insorse contro il tradimento. Era un atteggiamento ideologico senza alcun senso, una forma di snobismo fuori tempo massimo, ma era – al minimo – la certificazione che esisteva un mondo fuori da Sanremo, e un modo per essere musicisti senza passare da lì, solo facendo concerti e vendendo dischi.
Ora quel mondo è morto, i soldi su Spotify si fanno solo sui grandissimi numeri, il circuito del live si comprime (al punto che persino uno come Brunori Sas deve passare dal Festival per vendere biglietti del suo tour). E se la fine di certe sovrastrutture (indie vs mainstream, autentico vs. inautentico) è una buona notizia, l’assenza di alternative per chi fa musica è desolante. Soprattutto, appunto, nel momento in cui Sanremo torna a essere una questione interna alla discografia italiana, che appalta le canzoni ai suoi autori di fiducia (gli stessi 6 compaiono nel 50% delle canzoni) e punta sull’usato sicuro senza investire nulla in ricerca e sviluppo.
Sanremo torna a essere una questione interna alla discografia italiana, che appalta le canzoni ai suoi autori di fiducia (gli stessi 6 compaiono nel 50% delle canzoni) e punta sull’usato sicuro senza investire nulla in ricerca e sviluppo.
Intanto, chi negli ultimi anni aveva preso a guardare Sanremo con l’aspettativa di sentire qualche buona canzone, qualcosa di un po’ diverso dal solito, comincia a scocciarsi. Persino la sala stampa si trova, per assenza di alternative, a sostenere di nuovo i cantautori, per l’antico assunto tutto italiano per cui il peggiore dei cantautori è sempre meglio dell’ultimo degli interpreti (assunto che, davvero, speravamo fosse morto e sepolto).
L’impressione del 2025 è però che anche chi guarda Sanremo per la sua innegabile componente trash ne esca deluso: persino la noia sanremese – la tipica noia sanremese, connaturata al format – è diventata noiosa, all’ennesima battutina social tirata. Nell’omogeneità delle canzoni in gara, nella noia del Fantasanremo ormai istituzionalizzato, nei co-conduttori depotenziati ed esposti giusto per fare presenza muore – forse – anche il trash sanremese?
Nel piattume di questa edizione mancano persino i meme, le performance senza senso e senza gusto che alimentavano, se non il piacere estetico, almeno un certo gusto dell’orrido. Dove sono gli Aiello, le Oriette Berti con i pezzi arrangiati a base di trap beat, gli Alberto D’Urso, gli Enrico Nigiotti?
Persino la noia sanremese – la tipica noia sanremese, connaturata al format – è diventata noiosa.
Il Sanremo del 2025 assomiglia allora pericolosamente a quello del 2017, l’ultimo della prima epoca Carlo Conti, prima del riformismo moderato baglioniano, ma senza neanche una canzone come “Occidentali’s Karma” a farsi ricordare per gli anni a venire. O forse, ancora peggio, a quello del 2016: vinsero – per chiara mancanza di alternative valide – degli increduli Stadio.
Chi vincerà? Forse Simone Cristicchi per la seconda volta, sfruttando il ricatto sentimentale di un pezzo che sembra un editoriale di Gramellini, per come rimesta nel basso ventre dell'italiano medio. Forse Francsco Gabbani per la terza volta. Forse la solita Giorgia. Forse – boh? La verità è che, chiunque vinca, non cambia assolutamente nulla – ed era un po' che non succedeva più.