“C’è grande attesa”, dice un amico che smercia dischi riferendosi a Diamond Jubilee di Cindy Lee, il contenuto del quale – 32 canzoni nell’arco di due ore abbondanti – è disponibile tuttavia da quasi un anno su YouTube, avendo superato frattanto il milione e mezzo di visualizzazioni.
In quel modo, senza avvalersi delle piattaforme di streaming, è diventato un caso: addirittura migliore album del 2024 secondo “Pitchfork”, e presente in molte della classifiche di fine 2024 (compresa quella di chi scrive).
Ragion per cui, assumendo consistenza fisica (triplo in vinile e doppio su cd, per la label Superior Viaduct), diviene ora ambito oggetto di culto. Si tratta del settimo lavoro realizzato dal 39enne Patrick Flegel con lo pseudonimo Cindy Lee: identità en travesti ispirata a Faye Dunaway e Karen Carpenter.
Un paio dei precedenti – non così a fuoco, né altrettanto ambiziosi – erano stati diffusi in Europa dall’indipendente bolognese Maple Death, che ai tempi ne favorì la venuta in Italia per alcuni appuntamenti dal vivo: sei nell’aprile 2017 e quattro nel novembre 2018. Qui sotto, ad esempio, trovate l’integrale dello show a Ravenna, durante il festival Transmissions.
A proposito di concerti: sull’onda di Diamond Jubilee era stata organizzata un’estesa tournée americana, interrotta però a metà del tragitto “per ragioni personali”, mentre adesso gira voce che l’artista canadese abbia intenzione di rinunciare definitivamente a esibirsi in pubblico.
L’elusività del personaggio è cresciuta in misura direttamente proporzionale al successo, del resto: già totalmente assente dai social media, da fine 2023 non ha concesso più alcuna intervista. Indizi di un disagio espresso qui al culmine di “Stone Faces”: “Mi sono guardato intorno e cosa ho visto? Facce di pietra che mi fissavano. Mi avevano visto in copertina su una rivista e ora queste persone vogliono un pezzo di me”.
È uno slancio autobiografico a indirizzare il tracciato narrativo dell’opera, costellato ad esempio da appunti di viaggio: “Sono sul Greyhound, presto arriverò al confine (….) Fuori dalla Penn Station, nel sole accecante, ho detto addio a tutti i miei problemi”, canta con delizioso accento pop in “All I Want Is You”. E subito dopo in “Dallas”, una specie di blues da sottoscala, confessa: “Ho cercato di vederti ancora una volta, sotto la luna del Texas”, aggiungendo dettagli ulteriori in “Government Cheque” (“A 25 anni mi sono spostato a ovest, vivendo con il sussidio del governo”) e “Durham City Limit” (“Beh, ho preso una decisione e ho conservato il biglietto, mi ero sbagliato in passato, ma questa volta andrà diversamente”).
Le ambientazioni sono in genere notturne: “Un’altra notte insonne, il chiaro di luna mi avvolge e sto di nuovo navigando” (“Flesh and Blood”), “Nottetempo, dietro una porta sprangata, non era quello che cercavo” (nel doo-wop futurista di “I Have My Doubts”), oppure “La notte più buia (mezzanotte), cosa ci vorrà (le due), per superare (le quattro), per andare oltre (crepuscolo), oh sì (alba)” (“What’s It Going to Take”).
Analogamente a certi film recenti, tipo Aftersun o Estranei, la visione è sfocata e infestata da apparizioni oniriche: “Sono fuori dai binari, sto solo sognando, le cose non sono così terribili come sembrano”, nell’atmosfera a gravità zero di “Always Dreaming”. La percezione della realtà deriva da immagini riflesse: “Guarda allo specchio, una faccia che conosci troppo bene, se questo è il paradiso, andrò dritto all’inferno”, recita l’incipit di “Golden Microphone”.
Il carattere complesso dell’autore si manifesta anche in una coppia di alter ego, una “Demon Bitch” (“Ero una punk dalla lingua lunga, solo per sfidare la sorte, ero una puttana indemoniata, parlavo lingue sconosciute”) e persino “Dracula”, in un numero di neo-exotica degno dei Khruangbin.
A tratti poi trapela l’eco malinconica del lutto per un amico scomparso: “A volte ti vedo nei miei sogni, dove posso stare di nuovo con te” (“Dreams of You”), “L’altro giorno avrei giurato di sentirti chiamare il mio nome sulle melodie di ieri” (“Kingdom Come”) e “Tutto quel che ho è questa canzone, e il ricordo di te” (“Don’t Tell Me I’m Wrong”). Probabile sia Christopher Reimer, morto precocemente nel 2012: suo compagno d’avventura nel quartetto chiamato Women (due dischi in archivio, notevole in particolare il secondo, Public Strain, datato 2010).
Nella circostanza, viceversa, avendo unico sostegno dal connazionale Steven Lind, Flegel fa praticamente tutto da sé e distilla “queer pop” dal gusto rétro di cui sono ascendenti i girl groups covati da Spector, il lato oppiaceo dei Velvet Underground e lo stupore psichedelico dei Flaming Lips: un crocevia magico dal quale scaturisce il fascino ineffabile di un genio vulnerabile.