Un “Macbeth” francese di classe
La raffinata direzione di Roberto Abbado segna con successo il titolo di apertura del Festival Verdi 2024
Ne avevamo già avuta un’anticipazione qualche anno fa, quando in tempo di Covid era stata proposta in forma di concerto. Ora abbiamo la conferma che anche nella dimensione scenica il Macbeth nella versione parigina del 1865 rappresenta non solo la “traduzione” francese dell’opera di Verdi, ma incarna una versione del primo lavoro verdiano tratto da Shakespeare dotata di una sua specifica identità caratterizzata – al di là della “tinta” di un impianto musicale sostanzialmente sovrapponibile alla più frequentata versione italiana– attraverso le sfumature plasmate dalla dizione francese e da “luoghi drammatici” come quello rappresentato dal coro “O patrie! Ô noble-terre!” (“Patria oppressa”).
Il principale protagonista di questa conferma è Roberto Abbado, direttore che – come nel 2020 – ha guidato l’orchestra Filarmonica Toscanini nei fascinosi meandri espressivi di questo melodramma verdiano in quattro parti basato sul libretto di Francesco Maria Piave e qui nella traduzione in francese di Charles Louis Étienne Nuitter e Alexandre Beaumont – revisione di Candida Mantica dell’edizione critica curata da David Lawton – presentato in questa occasione in forma scenica per la prima volta in tempi moderni per l’apertura del Festival Verdi 2024.
Quella proposta dal direttore milanese di fronte al pubblico da “tutto esaurito” del Teatro Regio di Parma è stata una lettura capace di far emergere da questa partitura le complesse sfumature che la abitano, a partire da un intarsio strumentale che ha condotto la compagine orchestrale su territori espressivi di rara efficacia.
Una raffinatezza interpretativa che ha goduto di una significativa continuità nel corso dei quattro atti, tratteggiati attraverso una sorta di evoluzione che, dalle atmosfere interlocutorie della radura del bosco che apre l’opera con la prima apparizione delle streghe – e di Macbeth affiancato da Banquo – disegna via via un percorso variegato e coerente al tempo stesso. Un tracciato che rappresenta una specie di ideale filo conduttore carsico capace di emergere in superficie in occasione di momenti drammaturgicamente nodali come, per esempio, la lettura della lettera – declamata dalla voce dello stesso protagonista – da parte di una Lady Macbeth qui decisamente in primo piano, che vede innescarsi in quel momento quell’irresistibile desiderio di potere – e conseguente ossessiva ricerca del suo raggiungimento – che la porterà dall’indurre il gesto efferato dell’assassinio del re Duncano per mano del marito, fino all’autodistruzione.
Un percorso che Abbado gestisce con fluida padronanza anche nei confronti del palcoscenico, imbrigliando con gusto consapevole l’esuberanza espressa a tratti dal solido coro del Teatro Regio preparato con la consueta solerzia da Martino Faggiani, così come gestendo con sapiente equilibrio una compagine vocale composta da interpreti – tutti al debutto nella versione francese dell’opera – quali Ernesto Petti nei panni di un Macbeth tratteggiato con una misura nel complesso adeguata, Lidia Fridman in quelli di Lady Macbeth marcatamente altera e vocalmente ben caratterizzata, Michele Pertusi che ha dato nobile corpo a un Banquo dal segno scenico pregnante e Luciano Ganci alla prese con un Macduff restituito con presenza efficace e vocalmente generosa. Completavano il cast David Astorga (Malcolm) e Natalia Gavrilan (La Comtesse), Rocco Cavalluzzi (Un Médecin), Eugenio Maria Degiacomi (Un serviteur/Un sicaire/Premiere fantôme), Agata Pelosi (Deuxième fantome), Alice Pellegrini (Troisième fantôme).
La regia di questo nuovo allestimento era firmata da Pierre Audi, al debutto in un’opera verdiana in Italia, che ha proposto – ben assecondato dalle scene di Michele Taborelli, dai costumi di Robby Duiveman, dalle luci di Jean Kalman e Marco Filibeck – una lettura scenica di misurata e funzionale compostezza, un poco statica nella prima parte dove la sala del Teatro Regio rispecchiato forniva uno sfondo all’azione del palcoscenico dalla valenza simbolica abbastanza didascalica, peraltro già conosciuta in altri contesti. Più efficace la seconda parte della messa in scena, dove diversi ordini di grate potevano evocare le prigioni ideali di una mente accecata dalla sete di potere così come la via senza uscita di un destino drammaticamente e ineluttabilmente segnato, oltre a fare da sfondo discreto e funzionale alle coreografie di Pim Veulings pensate per i ballabili.
Gli applaudi convinti da parte del pubblico hanno salutato tutti gli artisti impegnati, suggellando con un bel successo questa serata inaugurale del XXIV Festival Verdi.
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