Era impossibile non vederlo quando arrivavi a teatro, due metri di direttore artistico non passano certo inosservati. La testa più vicina al soffitto quasi sempre era la sua. Ti faceva un cenno, ti sorrideva, si abbassava ad altezza d'uomo per abbracciarti e per darti il bentornato a Cormòns, la piccola città del sole ai piedi del Collio che aveva scelto per la sua utopia musicale.
Poi quattro chiacchiere a ruota libera e un paio di battute, lo stretto necessario per rimettersi in pari con i mesi che vi separavano dall'ultima volta che vi eravate incrociati (a Padova, a Venezia, magari dalle parti di Saalfelden). Il tutto mentre la telecamera lo aspettava nell'angolo con la migliore vista palco della galleria, pronta a catturare l'ennesimo concerto della sua carriera parallela di insaziabile archivista.
Se n'è andato già da qualche giorno Mauro Bardusco, 70 anni, tra i fondatori del circolo culturale Controtempo, anima insostituibile del festival Jazz & Wine of Peace (e di tanto altro in quella terra di frontiera che va da Pordenone a Trieste passando per Udine e Gorizia), ma ancora non è facile trovare le parole giuste per salutare un amico dal cuore grande prima che un infaticabile animatore culturale.
Un direttore artistico per vocazione, gentile e discreto, tanto allergico all'eccesso di attenzioni, all'etichetta dei riflettori, quanto sicuro in fatto di scelte, di opinioni, di indirizzi. Anche a costo di sembrare ruvido.
In un'Italia festivaliera fatta di troppi cartelloni confezionati con il manuale Cencelli dell'opportunismo, con tutta una schiera di grigi figuri sempre pronti a rincorrere il pubblico, i desiderata delle famigerate istituzioni, i bisogni dell'altrettanto famigerato territorio pur di ritagliarsi un posticino al sole del quartierino jazz, per Mauro esisteva un solo criterio assoluto: la musica.
Per Mauro esisteva un solo criterio assoluto: la musica.
Certo, un festival si fa anche con i compromessi, è una questione di equilibri, di concessioni, lo sapeva, ma tutto a Cormòns, nella sua Cormòns, era sempre e comunque funzionale a una visione personale, precisa, a un'idea di condivisione degli spazi di ascolto con la comunità di appassionati che ogni anno era orgoglioso di chiamare a raccolta. Bastava uno sguardo veloce al programma per vedere l'impronta della sua mano, per capire dove aveva dovuto cedere qualche centimetro al realismo e dove invece era riuscito a piazzare il concerto giusto, quello inseguito magari da anni, quello che era felice di offrire a chi bussava alla sua porta, che lo emozionava come un bambino (è capitato più di una volta di vederlo con gli occhi lucidi dalla gioia).
Ne aveva tanti in testa che avrebbe voluto organizzare, sospirava e allargava le braccia quando riferendosi a una band fuori portata gli si diceva «dovresti portarli a Cormòns questi», come a dire che potendo ci avrebbe messo cinque minuti a tirare in piedi il festival dei suoi sogni.
Lui che durante l'anno, sempre armato di telecamera, spuntava qua e là in giro per l'Europa a caccia di idee, di talenti. Lui che inseguiva senza posa i suoni dei quali continuava a invaghirsi, aperto al nuovo e all'inaspettato nonostante fosse precisissimo, e sempre dichiarato, il mondo di ascolti al quale apparteneva per militanza generazionale.
Gli Zooid di Henry Threadgill, un paio di memorabili passaggi dei The Thing di Mats Gustafsson, la big band Resonance di Ken Vandermark, il quartetto di William Parker in tempi non sospetti, il quintetto di Dave Holland, quello di Prime Directive, l'Arkestra e il trio di Michel Portal in un'indimenticabile serata con Louis Sclavis, il quartetto di Craig Taborn in uno dei concerti della vita, Tim Berne, Vijay Iyer, Rob Mazurek, Mary Halvorson, Marc Ribot, Steve Coleman, Bill Frisell: sono tanti i nomi che si affollano nella mente ripensando ai meriti che gli vanno riconosciuti, alla sua tenacia e alla sua caparbietà, alla sua schiva integrità.
So che sarebbe stato in imbarazzo leggendo queste parole: ti chiedo scusa, Mauro, è l'ultimo sgarbo che ti faccio. Grazie di tutto.