Unapologetic Expression. The Inside Story of the UK Jazz Explosion (Faber & Faber) è il titolo del libro in cui l’autore, André Marmot, ricostruisce l’esplosione della nuova scena jazz britannica, analizzando in chiave politica la diaspora caraibica e quella africana e come musiche differenti si siano influenzate prima e amalgamate poi per dare vita a qualcosa di nuovo.
Nato e cresciuto a Londra, André Marmot è un musicista, un agente, un proprietario di etichetta discografica e un promoter. A fianco delle sue ricerche storiche e della profondità delle sue osservazioni personali, la forza principale del suo libro risiede nello spazio concesso ai musicisti per raccontare le loro storie. Come un’opera epica – e Unapologetic expression può essere visto come una potente opera moderna – l’ampio cast di intervistati a rotazione lascia impressioni rivelatrici in quasi ogni pagina di questo libro.
Indubbiamente il curriculum di Marmot gli ha dato accesso ai protagonisti di questa scena, giustificando così il sottotitolo del libro. Altro aspetto non trascurabile, Marmot sa scrivere: non in modo ricercato ma con una chiarezza di pensiero e una semplice eleganza di espressione che rende davvero piacevole passeggiare tra le 424 pagine del libro.
Unapologetic Expression è fondamentalmente una storia della musica a Londra negli anni recenti: ci sono alcuni accenni a musicisti del periodo precedente a quello trattato nel libro e quindi compaiono i nomi di Courtney Pine, Soweto Kinch e GoGo Penguin, ma l’autore dà il meglio di sé quando descrive gli anni che conosce meglio, perché vissuti in prima persona. E allora ecco che la narrazione porta con sé nomi di serate, luoghi ed etichette discografiche ormai divenuti storici quali United Vibrations, Steez, Brainchild, Total Refreshment Centre, Steam Down, Brownswood e We Out Here, Jazz Re:freshed, Church of Sound, Tomorrow’s Warriors e altri ancora.
Mentre si leggono questi nomi, la colonna sonora suggerita può essere “Rye Lane Shuffle” di Moses Boyd oppure Black Faces di Yussef Kamaal.
E se bisogna indicare un momento topico, un turning point, non ci possono essere dubbi al riguardo: la comparsa (o forse dovrei dire l’apparizione) del già citato Boyd con Shabaka Hutchings e Theon Cross al festival SXSW di Austin nel 2017, quando divenne palese che questa scena poteva guadagnare popolarità oltre a Peckham e Dalston, due quartieri periferici di Londra.
Insomma gli Stati Uniti hanno dato la benedizione a questa nuova scena e l’hanno ”sdoganata” in altre parti del mondo, un po’ come accadde qualche decennio prima, ai tempi della cosiddetta British invasion di Beatles, Rolling Stones e Who.
Come anticipato, si tratta di un libro piuttosto politico, nel senso che Marmot non ha paura di criticare gli effetti della politica governativa sulle arti e sui giovani musicisti jazz in particolare e di proporre la sua convinzione che il jazz è essenzialmente una musica nera – nella quale tutti gli altri sono i benvenuti, se vogliono partecipare.
Per supportare la sua tesi Marmot sceglie con cura le voci da coinvolgere: per questo motivo, per larga parte questa è una storia orale. E da qualsiasi prospettiva stia esaminando la sua tesi – ci sono capitoli intitolati “Proprietà e appropriazione del Jazz”, “Jazz e la Londra postcoloniale” e “Nuovi modelli industriali e la fine del tribalismo musicale” – permette ai musicisti di esprimere le loro opinioni in maniera diretta, non mediata. Del resto non è per nulla sorprendente che persone come Sheila Maurice-Grey, Dave Okumu, Poppy Ajudha, Jason Yarde e Emma-Jean Thackray abbiano opinioni interessanti.
«Penso che sia la prima volta, tanti musicisti insieme che non hanno paura a rappresentare le culture da cui provengono e a mettere tutto ciò in quello che creano» - Wayne Francis, United Vibrations/Myriad Forest
Non lasciamoci fuorviare dai titoli dei capitoli che ho appena riportato: questo è tutt’altro che un libro dal taglio accademico. È pieno di vita e di energia, vivace e pungente, proprio come la musica di cui parla. Potrebbe persino convertire alcuni di quelli che osservano con scetticismo gli amanti di questo genere – alcuni dei quali molto probabilmente non sanno distinguere Lester Young da Coleman Hawkins e non hanno mai ascoltato “West End Blues” o “Parker’s Mood” – mentre ballano e si divertono intanto che questi musicisti suonano per persone che si presentano, pensano e vivono come loro.
L’ultima volta in cui il jazz era stato popolare in UK – e stiamo parlando della seconda metà degli anni Ottanta – gli eroi del momento erano soprattutto di origine caraibica, i bambini della cosiddetta Windrush generation. Spostiamoci ai giorni nostri e molte delle figure di punta di questa nuova ondata di accoliti del jazz sono i bambini di immigrati africani la cui musica riflette sia la loro eredità culturale sia il loro contesto urbano in cui sono cresciuti.
Uno dei punti più interessanti del libro è quello relativo alla ricerca svolta da Marmot sul parallelo socio-culturale tra questa generazione di artisti jazz londinesi e le radici storiche di questa musica. Le forze dell’imperialismo, del colonialismo e della globalizzazione che hanno dato vita al jazz più di un secolo fa – lui sostiene – continuano a dare forma all’evoluzione della musica in UK oggi, con Londra al suo epicentro: questa è una storia che non parla solo di jazz ma anche della Gran Bretagna post-coloniale.
Questa è una storia che non parla solo di jazz ma anche della Gran Bretagna post-coloniale.
È la storia di come musicisti quali Shabaka Hutchings, Nubya Garcia, Binker Golding, Theon Cross, Zara McFarlane e Moses Boyd, giusto per fare qualche nome, e gruppi quali Kokoroko, The Comet Is Coming e Ezra Collective, hanno portato il jazz a un pubblico nuovo e più giovane suonando una musica che riflette la loro Gran Bretagna e, in maniera più specifica, la Londra di oggi.
«La musica che suoni è jazz? – Non lo so e, a dirla tutta, non m’interessa più di tanto. Una cosa è certa: è il suono di Londra» - Femi Koleoso di Ezra Collective
La frase di Koleoso è emozionante: Londra, città multiculturale per eccellenza in Europa (anche come conseguenza di secoli di colonialismo), oggi ha un suo suono, fatto di afrobeats (con e senza s finale), yoruba, highlife, amapiano, reggae, dancehall, dub, dubstep, grime, UK garage, quartieri periferici dove vivono gli immigrati dell’Africa occidentale che adesso sono diventati posh, alla moda, e dunque a rischio di gentrificazione, e tutto questo mescolato in proporzioni di volta in volta differenti ha dato vita a qualcosa che è musica jazz ben lontana da quella che viene suonata al Ronnie Scott’s di fronte a un pubblico di bianchi di mezza età – chi glielo dice a questi signori che un lunedì sera (non proprio una serata classica da clubbing) duemila ragazzi si sono messi in coda davanti a un locale alla periferia nord-est di Londra per ascoltare Theon Cross, uno che suona la tuba?
Sì, avete letto bene, la tuba.
Unapologetic Expression ritrae questa musica – spesso intrisa di politica – attraverso le molteplici lenti dell’immigrazione, della razza e del gender, dello sviluppo urbano, delle disparità economiche ed educative, e della disaffezione nei confronti della politica.
Non ci è dato sapere se l’attuale onda jazz proveniente dalla Gran Bretagna (e l’eccitazione intorno a essa) si rafforzerà ulteriormente negli anni a venire o se scomparirà, come già successo in passato con precedenti impennate della popolarità del jazz; in ogni caso questo libro rimarrà senza alcun dubbio come un punto di riferimento essenziale per chiunque cercherà di capire il senso della scena jazz britannica (soprattutto quella londinese) ai tempi della Brexit.
P.S. All’inizio del libro l’autore ringrazia tutti gli intervistati che col loro contributo hanno partecipato alla sua realizzazione e si rammarica di non essere riuscito a contattare alcuni nomi importanti della scena oggetto della sua opera, tra cui Alabaster DePlume: bene, noi c’eravamo riusciti, e qui trovate il risultato di quell’intervista.