Lo stile italiano di Muti
Al Ravenna Festival un concerto per festeggiare i 20 anni dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, diretta ancora una volta dal suo fondatore, con il clarinetto solista di Simone Nicoletta, ex ‘cherubino’ d’eccezione.
Da ormai due decenni Riccardo Muti si prende amorevole cura dei suoi ‘cherubini’, gli oltre 90 strumentisti dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini da lui stesso fondata nel 2004, cresciuta artisticamente stagione dopo stagione, fino a raggiungere negli ultimi tempi un livello di assoluta eccellenza (benché non sempre riconosciuta quanto dovrebbe, a livello pubblico e istituzionale).
Fra i momenti di spicco, in questo anno commemorativo, risalta l’esibizione in quel tempio della musica che è la sala dorata del Musikverein a Vienna (12 giugno), con il primo clarinetto dei Wiener Philarmoniker, Daniel Ottensamer, a fare gli onori di casa nel Concerto K 622 di Mozart. Tre giorni prima, è si offerto invece il Ravenna Festival di ospitare l’Orchestra con il medesimo programma; e ancor più significativamente è stato scelto quale solista Simone Nicoletta, già primo clarinetto nella Cherubini, dieci anni or sono, ed oggi titolare nell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna. Un segno importante: l’evidenza concreta di un percorso vincente, che attraverso quell’esperienza – ‘giovanile’, sì, ma di alto livello artistico – accompagna gli strumentisti migliori verso il successo professionale.
All’insegna dell’italianità, come tanti dei più recenti progetti di Muti (cominciando dall’Italian Opera Academy), era il programma impaginato per la circostanza: a poche ore dalla celebrazione in gran pompa del canto lirico italiano nell’Arena veronese, cui lo stesso Maestro ha offerto il suo contributo, ecco a Ravenna la rivalutazione con toni più discreti di quel sinfonismo ‘all’italiana’ oggi misconosciuto, ma che aveva trovato stimatori e proseliti nei secoli passati, soprattutto fuori dall’Italia. Brani non nuovi per Muti, sui quali egli ritorna con periodicità.
Nella prima parte abbiamo ascoltato l’influenza concreta dell’opera italiana sulla strumentalità viennese. La Ouverture nello stile italiano in Do maggiore di Schubert (la seconda delle due composte sull’onda della Rossinimania dilagante in quegli anni) si dice ispirata dalla Ouverture del Tancredi, di cui ricalca toni e movenze. Esecuzione nitida, equilibrata, frizzante. Nel Concerto per clarinetto e orchestra di Mozart che ha fatto seguito, la scrittura dello strumento solista si conforma addirittura alla vocalità degli antichi castrati italiani, con alcuni passaggi virtuosistici identici a quelli che lo stesso Mozart aveva predisposto per Venanzio Rauzzini nel Lucio Silla di vent’anni prima. Simone Nicoletta ha dato la miglior prova di sé, con un suono sempre controllato, elegante, morbido, privo di sbavature o eccessi.
La seconda parte del concerto è stata invece dedicata al sinfonismo italiano fra Otto e Novecento, vale a dire ai quei tentativi che alcuni compositori intraprendenti innescarono per distaccarsi dal più popolare melodramma nostrano e avvicinarsi ai modelli strumentali d’Oltralpe, ma senza perdere il gusto per la cantabilità melodica italiana (si ricordi l’aforisma dello stesso Puccini, all’epoca di Tosca: «Contro tutto e contro tutti fare opera di melodia»). Melodica è certo l’ispirazione di Catalani in Contemplazione (1878), tanto da farci rimpiangere la sua prematura scomparsa. Più spigolosa è la strumentalità di Busoni nella suite da Turandot (ma il cambio di secolo non è passato invano). E qui la Cherubini, rimpolpata rispetto alla prima parte della serata, sfoggia la pienezza del suo timbro: non lussureggiante, come quello forse di altre orchestre, ma sempre controllato con discrezione (come dire: più morbido, che non estroversamente brillante, pure nei pezzi esotici e caratteristici tratti dall’opera ‘cinese’ di Busoni).
Come in precedenti occasioni, per il bis Muti si è infine rivolto all’intermezzo operistico, scegliendo quello cantabilissimo dalla negletta Fedora di Giordano: il tema («Amor ti vieta di non amar»), nelle orecchie di tanti, ha apportato un suggello di compiacente leggerezza, e un’ulteriore riprova che, se avessero voluto dedicarvisi maggiormente, anche i compositori italiani avrebbero potuto tracciare una strada molto interessante nel sinfonismo tardoromantico. Di certo alternativa.
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