Puccini fa coppia con Ravel

Bella edizione di Gianni Schicchi e L’heure espagnole all’Opera di Roma

 L’heure espagnole (Foto Fabrizio Sansoni)
L’heure espagnole (Foto Fabrizio Sansoni)
Recensione
classica
Teatro dell’Opera di Roma
Gianni Schicchi e L’heure espagnole
07 Febbraio 2024 - 16 Febbraio 2024

Come trasformare un trittico in tre dittici: questo è, in scherzosa sintesi, il progetto del “Trittico ricomposto” che il Teatro dell’Opera ha ideato e sta ora realizzando, scaglionandolo in tre stagioni. Ogni volta uno dei tre atti unici del Trittico  di Puccini viene abbinato ad un atto unico di un altro compositore del Novecento. Si è cominciato con Il Tabarro  e Il Castello di Barbablù  di Bartók e ora si è giunti a metà percorso con Gianni Schicchi  e Lheure espagnole  di Ravel. Dunque due opere comiche separate da pochi anni di distanza (quella di Puccini è del 1918, quella di Ravel del 1907, ma dovette aspettare il 1911 per essere portata sul palcoscenico) che proponevano un nuovo genere o piuttosto due nuovi generei) di comicità operistica, in un momento in cui il comico sembrava ormai bandito da ogni forma d’arte.

Ad unificare questi due atti unici erano la regia e le scene di Ersan Mondtag, giovane artista tedesco attivo in più campi, che rappresenterà la Germania alla Biennale Arte di Venezia 2024. Come da libretto, ha ambientato Gianni Schicchi  in un palazzo fiorentino del Trecento, però non nella camera da letto ma in un salone grandioso e in cattive condizioni: colonne sbilenche, muri sbreccati, vetri rotti, ciuffi di erbacce incolte che spuntano qua e là. Quando si alza il sipario, la musica ancora tace: è notte fonda, si odono versi di uccelli notturni, nel buio si aggirano persone o piuttosto ombre grigie, sul letto giace un malato: è Buoso e un suo piccolo un movimento indica probabilmente l’istante della sua morte. È un inizio alquanto sinistro per una commedia. Quando l’orchestra attacca, le luci si alzano un po’ e si comincia a vedere meglio quel che succede. Arrivano i parenti con occhi bistrati e acconciature assurde, vestiti con abiti in parte medioevali e in parte moderni (anche con un tocco LGBT+) ma sempre assurdi: personalmente mi hanno fatto pensare ad una nuova famiglia Addams, sebbene non ne siano una copia letterale.

Mondtag ritiene che quest’opera non sia affatto spassosa ma anzi sinistra e asprigna e che quel tanto di comicità che c’è non consista nei ritrattini caricaturali dei singoli personaggi, con mossette ridicole e accentuata pronuncia fiorentina, alla vecchia maniera. Questo è il ritratto di un pezzo d’umanità, non di singole persone. Spesso i personaggi fanno gruppo e agiscono collettivamente, per esempio nell’ipocrita lamento per la morte di Buoso (è Puccini stesso a intonarlo come una specie di salmodia collettiva) e nell’affannosa ricerca del testamento: sono tutti simili, ipocriti, gretti, meschini, attaccati solo al denaro e privi di scrupoli.

Ma, quando è necessario, Mondtag li fa venire fulmineamente in piena luce. Eccoli qua: la Zita cattiva e maligna di Sonia Ganassi; il Simone di Nicola Ulivieri, sotto il cui buon senso trapela una mente non più sveglissima, data l’età; lo Spinelloccio di Domenico Colaianni, con la sua ridicola prosopopea di illustre medico, ma ormai rimbambito; il Ser Amantio del giovane Mattia Rossi, che si fa infinocchiare nonostante - o piuttosto grazie a - la sua impassibile professionalità notarile. Finiamo qui l’elenco, accomunando gli altri in un “bravi tutti”: Roberto Accurso, Ya-Chung Huang, Valentina Gargano, Daniele Terenzi e Ekaterina Buachidze.

Abbiamo lasciato per ultimi i tre che hanno una parte di maggior spicco. Innanzitutto Carlo Lepore: Il suo Schicchi non è un baritono che gigioneggia (di questi ne abbiamo sentiti abbastanza) ma un popolano concreto, che sa quel che vuole ed è astuto quanto basta per ottenerlo: perfetto dalla prima nota al breve parlato con cui alla fine si rivolge al pubblico. La giovane e promettentissima Yuvu Mpofu è Lauretta, l’unica che non sia coinvolta nello squallore degli altri personaggi, grazie al suo amore sincero: l’attacco di “O mio babbino carico” è delicatissimo sul limpido accompagnamento dell’arpa e poi trova maggior trasporto lirico quando entrano gli archi. Giovanni Sala invece canta “Firenze è un albero fiorito” senza tanto lirismo e giustamente, perché sta pensando non tanto all’amore ma ai guadagni che lo sviluppo di Firenze gli permetterà.

Implicitamente si sono già dette varie cose anche della direzione di Michele Mariotti: asciutta e “cattiva”, spesso quasi sinfonica, ma con improvvisi bagliori che illuminano certe improvvise uscite dei personaggi. È un Puccini ripulito dal “puccinismo”, liberato dalla polvere della routine e riverniciato per farne risaltare la modernità. Ottimo.

C’è meno da dire de L’heure espagnole.  La scena è la stessa di Gianni Schicchi,  però il secondo piano del palazzo è sparito e il suo posto è stato preso da un grande schermo su cui Mondtag proietta alcune visioni fantastiche: per esempio, un paesaggio preistorico con vulcani fumanti e voli di pterodattili, di cui è difficile individuare il nesso con l’opera di Ravel. Al piano di sotto è la casa dell’orologiaio Torquemada, ingombrata – come da libretto – da pendole. Non è facile far funzionare quest’opera, interamente basata sul continuo viavai di uomini (marito, amante in carica e altri due spasimanti) che Concepción deve regolare e sui tanti inconvenienti e disguidi che ne derivano. Un soggetto gracile, da trattare con arguzia unita a frizzante vivacità, che non sembrano nelle corde del regista tedesco.

La protagonista è Karine Deshayes, una delle più apprezzate cantanti francesi di oggi. Tra i quattro uomini la donna alla fine sceglie Ramiro, secondo il libretto perché è il più prestante, o forse perché è stato molto ben interpretato da Markus Werba. Inappuntabili anche gli altri tre, che avevamo già apprezzato in Puccini: Giovanni Sala, Nicola Ulivieri e Ya-Chung Huang. Anche qui la direzione di Mariotti è molto asciutta, ma in Ravel si desidererebbero più colori e ritmi più vari. Forse questo non dipende dal fatto che il direttore musicale del Teatro dell’Opera deve acquistare più esperienza in Ravel ma dall’intento, come egli stesso ha detto, di fare con questo dittico “il ritratto di due famiglie, ma in negativo” in modo tale che “alla fine rimane un senso di vuoto”: ma questo vuoto non si è affatto avvertito in Gianni Schicchi,  invece nell’Heure espagnole .

Comunque uno spettacolo di classe, ben curato e molto apprezzato dal pubblico.

 

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