La prima italiana di “Buddha Passion” di Tan Dun a Roma
Il compositore cinese ha diretto personalmente questo suo ampio lavoro del 2018, che ha ottenuto un grande successo
Già programmata negli scorsi anni, ma cancellata a causa del Covid-19, la prima esecuzione italiana di Buddha Passion di Tan Dun si è finalmente potuta svolgere all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, in collaborazione con RomaEuropa Festival. Questa vasta composizione è stata commissionata dal festival di Dresda (dove ebbe luogo la prima esecuzione assoluta nel 2018) e da tre importanti orchestre del mondo occidentale (le Filarmoniche di New York, Los Angeles e Melbourne), ma la vera spinta a comporla venne a Tan Dun dalla visita alle Grotte di Mogao, situate lungo la Via della Seta, dove nel corso di mille anni, dal quarto al quattordicesimo secolo, sono stati scavati centinaia di templi buddisti e scolpite e dipinte innumerevoli raffigurazioni del Buddha. Il compositore racconta: “Sono stato sopraffatto dalla bellezza delle immagini e dalla secolare devozione al buddismo che emerge da quei dipinti. […]. Non solo la bellezza e la varietà delle immagini mi hanno commosso, ma anche le storie che sono rappresentate sulle pareti di quelle grotte. Erano le storie che mi raccontava mia nonna, quando ero ragazzo e correvo scalzo per le campagne della mia provincia.” In quelle grotte sono molte anche le raffigurazioni di musicisti, orchestre e strumenti musicali e proprio questo, insieme all’ascolto della prima esecuzione in Cina della Matthäus Passion di Bach, convinse Tan Dun che era possibile narrare la vita del Buddha in musica.
Compose dunque la Buddha Passion, che potremmo definire un oratorio in sei parti o atti, della durata complessiva di poco meno di due ore, di cui egli stesso ha scritto il “libretto”, traendolo da antichi scritti in sanscrito e in cinese sulla vita e gli insegnamenti del Buddha. Il primo atto racconta un episodio del piccolo principe, che alla vista di un uccellino morto scopre la sofferenza del mondo, iniziando così le esperienze e la meditazione che lo faranno diventare Buddha. L’ultimo narra la morte del Buddha ovvero il suo ingresso nel Nirvana. Ogni atto si chiude con un’Ode alla Compassione.
Tan Dun ha sempre espresso la spirito della Cina ibridando le antiche tradizioni musicali cinesi con la moderna musica occidentale. È proprio quest’ultima a prevalere, cosicché della musica cinese rimane soltanto un profumo quasi ineffabile di scale pentatoniche, di strumenti orientali, di ritmi autoctoni. Sono elementi che ritornano con effetto spesso affascinanti anche in Buddha Passion. Non bisogna dimenticare che Tan Dun è innanzitutto un grande compositore di musica da film, che lavora per produzioni cinematografiche cinesi destinate al mercato internazionale, quindi sa come portare l’anima della Cina alla diretta comprensione di un pubblico vastissimo e anche come imprimere un forte appeal spettacolare alla sua musica.
Dover risalire ad epoche arcaiche, immergendo gli ascoltatori in una spiritualità antica di millenni, e raccontare sei episodi salienti della vita del Buddha e del suo progressivo distacco dalle passioni e dal mondo fino al raggiungimento del Nirvana, ha indotto Tan Dun a scrivere una musica estremamente semplice, per lo più basata su linee melodiche sorrette da un soffice tappeto orchestrale. Una musica semplice - ma tutt’altro che ingenua - che va ascoltata con cuore e testa sgombre da preconcetti, perché solo così se ne può capire il significato e percepire il messaggio spirituale.
Nel programma di sala Gianluigi Mattietti osserva giustamente che Buddha Passion rimanda – mutatis mutandis - alla Turandot di Puccini, per il suo frequente melodizzare su scale pentatoniche, per l’intenso lirismo di molte parti vocali, per il colorito esotico, per la lussureggiante scrittura orchestrale, che mescola abilmente sonorità asiatiche ed europee. In effetti i quattro solisti vocali sono cantanti lirici, che figurerebbero benissimo in Puccini, e l’orchestra è le grandi dimensioni tipiche del primo Novecento, con l’aggiunta di vari strumenti a percussione cinesi. Però in Buddha Passion - diversamente che nella Turandot - quest’orchestra rimane nell’ambito di sonorità prevalentemente contenute e si scatena soltanto alla fine della prima e della seconda ed ultima parte, rispettivamente con una danza selvaggia e con una perorazione solenne, il cui effetto strappa-applausi è piuttosto scontato e prevedibile: non ce lo saremmo aspettato da Tan Dun.
I momenti più suggestivi sono proprio quelli in cui la musica tradizionale cinese viene in primo piano, come la breve apparizione della danzatrice Han Yan avvolta in una leggera tunica bianca, che compie alcuni movimenti di danza e trae alcune note dal pip’a (strumento cinese simile al liuto). Ma dove le tradizioni musicali cinesi hanno più ampio spazio, è l’inizio del quinto atto, che descrive l’incontro tra una donna morente e un monaco errante, entrambi interpretati da cantanti autoctoni: la donna da Jangfan Yong e il monaco dallo straordinario Batubagen, un maestro del canto gutturale tipico dei monaci tibetani, abbinato al suono del xiqin, antico strumento a corda.
Ma anche gli interpreti erano ottimi e hanno dato un contributo importante al grande successo che ha accolto Buddha Passion. Erano il soprano Candice Chung, il mezzosoprano Hongni Wu, il tenore Yi Li e il baritono Elliot Madore. Molto bene sia l’Orchestra sia il Coro e le Voci Bianche dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (che hanno canto in sanscrito e in cinese!) preparati dal maestro del coro Andrea Secchi. Nessuno avrebbe potuto dirigere questa partitura meglio del compositore stesso, che ha un gesto direttoriale preciso e chiaro, con cui ottiene sempre esattamente quello che vuole da solisti, coro e orchestra. Un concerto interamente di musica contemporanea normalmente sarebbe andato semideserto, invece il nome di Tan Dun ha richiamato un pubblico piuttosto numeroso, che è rimasto decisamente soddisfatto, a giudicare dagli applausi.
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