Max Fuschetto nuovo e antico
Ritmico non ritmico è l'album del compositore e fiatista per l'etichetta Novantiqua
In un mercato musicale, ci ribadiscono a ogni occasione, sempre più smaterializzato e avviluppato nelle catene immateriali e cogenti assieme dei bit, trovare qualche spunto che si faccia notare per il coraggio nudo di scegliere una strada non battuta è molto.
Non è neppure indicata nei percorsi quella intrapresa da Novantiqua Records, etichetta attiva da una dozzina d’anni, che già nel nome porta in dote un bel “fiore inverso”, come dicevamo metaforicamente gli antichi trovatori. Loro si definiscono così: «Un piccolo pianeta con un orbita senza centro irregolare e costantemente incostante. Un mondo musicale con molti centri di gravità e nessun satellite».
Si parlava di “mercato” però: e la pista mai battuta, qui, è il proporre all'ascoltatore di scegliere sul catalogo il cd o il dvd, farselo mandare a casa, e lasciar decidere a lui il prezzo da pagare. Sulla fiducia. Fiducia doppia, perché chi sceglie stia sull'avviso che riceverà musica magari dolcissima, ma riottosa ad ogni tentativo di farsi serrare polsi e caviglie nelle manette plastiche delle etichette, che infestano più che mai il nuovo mercato liquido.
Il preambolo (sorprendente dato antieconomico ed etico assieme compreso) serviva per introdurre il nuovo lavoro del compositore, oboista e sassofonista beneventano Max Fuschetto che sembra rispettarli tutti, i “non parametri” della Novantiqua. Anche qui, a partire dal titolo: Ritmico non ritmico.
Mettere assieme in un continuum due parametri che si negano l'un l'altro è già parecchio indicativo. Il primo indizio che ci viene fornito, dunque, è che l'insieme di regole che strutturano la musica scritta e suonata in Occidente sarà qui spesso incanalato verso esiti inattesi.
Ad esempio nei primi tre brani in successione, "Number 1", "Number 3" e "Number 5" l'ossatura è costruita con pattern ritmici di evidente origine africana, o afroamericana, al più, evidenti nel gioco serrato di note ribattute sul pianoforte da Enzo Oliva, e alonate in una sorta di fascinoso “fading” dalla chitarra elettrica di Pasquale Capobianco. Ma da lì, come sarebbe lecito attendersi, non segue una qualche evoluzione solistica in assolo, modaleggiante: tutto resta sospeso, isolato, stagliato, incastonato dai silenzi, in una sorta di attesa continuamente iterata. Siamo dunque in un spazio che oscilla tra minimalismo, post rock estremo, avanguardie classiche contemporanee.
E poi c’è tutta la riflessione che occupa un altro cuore nevralgico del progetto, sull’arte visiva dei maestri dell'astrattismo, già avvicinato negli anni Sessanta e Settanta del Novecento dalla New Thing jazzistica (si pensi a Ornette Coleman): qui "Vortex", dedicato a Jackson Pollock e "Iride", per Paul Klee, dove le note sembrano aggrumarsi e allontanarsi nell’alea (un’alea ricostruita in studio, si intende).
Resta da dire che in due brani è ospite il superbo flicorno di Luca Aquino, tornato alla piena attività dopo un periodo difficile, e che c’è da gustarsi la sorpresa finale di "A Lucio B". Un antico frammento melodico di tre decenni fa recuperato da Fuschetto e dedicato ovviamente a Battisti, introdotto dai suoni concreti di una metropolitana, e avviluppato poi in meditate spire da progressive rock d'antan.
Un gran disco, insomma “nuovo e antico”, verrebbe voglia di dire, rammentando la label.