Triduo di Requiem in crescendo
L’evento musicale di fine anno è la tripla esecuzione del capolavoro verdiano che Riccardo Muti propone a Ravenna, Rimini e Bologna: impressioni contrastanti a confronto
Dall’inizio del mese, Riccardo Muti si è dedicato anima e corpo alla Messa da Requiem verdiana. È una vita intera, in realtà, che si occupa della partitura di Verdi, «una delle sue maggiori creazioni, una grande pagina di riflessione», come la definisce egli stesso nel volume Verdi, l’italiano (Rizzoli). Scelta quale occasione di studio per la Riccardo Muti Italian Opera Academy di quest’anno (un corso di perfezionamento per giovani direttori d’orchestra che il Maestro indirizza verso interpretazioni musicali stilisticamente rigorose), è stata fatta oggetto a Ravenna di prove aperte al pubblico e di un’esecuzione il 13 dicembre spartita fra gli allievi Kerou Liu, Polina Lebedieva, Nicholas Koo e Sieva Borzak in alternanza sul podio. Da ultimo sono arrivate le esecuzioni pubbliche dirette dal Maestro stesso: giovedì 15 dicembre al Teatro Alighieri di Ravenna, come momento culminante dell’Opera Academy, sabato 17 al Teatro Galli di Rimini quale conclusione della 73ª Sagra Musicale Malatestiana e lunedì 19 al PalaDozza di Bologna come ultimo appuntamento del Bologna Festival 2022.
Gli allievi dell'Italian Opera Academy (Foto Zani)
Tre esecuzioni in luoghi molto diversi e per spettatori ancor più dissimili, cosa che ha offerto la rara occasione di verificare da vicino l’ineffabile fenomenologia dell’esecuzione e della percezione musicale, così mutevole di giorno in giorno, di luogo in luogo, pur restando immutati i protagonisti dell’esperienza estetica: l’ascoltatore privilegiato che si è spostato da una città all’altra con un suo vissuto autobiografico in continuo divenire e gli esecutori sempre uguali eppure sempre diversi anch’essi. Che nella fattispecie erano i solisti di canto Juliana Grigoryan (soprano), Isabel De Paoli (mezzosoprano), Klodian Kaçani (tenore) e Riccardo Zanellato (basso), il Coro Luigi Cherubini e il Coro Cremona Antiqua diretti da Antonio Greco e Diego Maccagnola, nonché l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, tutti al servizio della bacchetta di Riccardo Muti.
L’esecuzione ravennate non si ammantava ovviamente dell’aura di evento che si respira ogni qualvolta Muti si presenta in un’altra città italiana; né si notava la grande affluenza di pubblico esterno – e in gran parte straniero – che accorre ogni anno per applaudirlo nei concerti estivi del Ravenna Festival al Palazzo Mauro De André. Un concerto, dunque essenzialmente pensato da Muti per la “sua” città, con la particolare attrattiva di poterne godere questa volta la musica in un luogo ideale come il Teatro Alighieri, là dove le precedenti esecuzioni ravennati del Requiem verdiano erano state dislocate da Muti in luoghi alternativi: all’aperto nella Rocca Brancaleone, in chiesa a Sant’Apollinare in Classe, nell’immensa struttura sportiva del Pala De André. Ma proprio sul palcoscenico del Teatro Alighieri è sembrato uscirne acusticamente penalizzato il coro, forse per la mancanza di una cassa armonica che raccogliesse il suono convogliandolo verso la platea, anziché lasciarlo disperdere verso l’alto, fra le graticce che sovrastano il palcoscenico.
Effetto opposto di quello sperimentato due giorni dopo al Teatro Galli di Rimini, dove a risultare acusticamente penalizzati erano invece i quattro solisti di canto, sebbene allineati al proscenio. Paradossalmente l’acustica migliore si è dunque goduta al PalaDozza bolognese, grazie all’azione di tanto discreti quanto efficaci diffusori del suono, che ricompattavano le varie fonti acustiche dislocate al centro del palazzetto sportivo per distribuirle uniformemente sull’arco dei 180 gradi occupati dal pubblico.
Il quale – giova qui sottolinearlo – era a Bologna del tutto differente dalla classica tipologia di spettatori teatrali che occupavano la sala a Ravenna e a Rimini. A dare una svolta particolare all’esecuzione bolognese non è stata infatti soltanto la collocazione nel grande spazio che consentiva l’ingresso a una quantità inusitata di pubblico: con un inedito gesto di mecenatismo culturale e sociale insieme, la società Illumia (operante a Bologna nel mercato libero dell’energia elettrica e del gas naturale) non si è limitata a sponsorizzare il concerto organizzato da Bologna Festival, ma ne ha acquistato i 3500 biglietti disponibili per distribuirli gratuitamente ai cittadini, in cambio di un’offerta devoluta all’organizzazione di volontariato La Mongolfiera, che da anni sostiene le famiglie di bambini con disabilità.
Esauriti in poche ore, la caccia ad eventuali biglietti in esubero fra amici e parenti è proseguita per tre settimane, creando in città un’attesa tangibile soprattutto fra quanti, non usi ai grandi concerti della ‘classica’, anelavano di vedere per la prima volta dal vivo il famoso Maestro Muti, ormai assurto a icona nazionale. E non è escluso che a tanta tensione emotiva sia stato dovuto il malore che durante l’esecuzione ha colto più di una persona sugli spalti del PalaDozza, prontamente soccorsa dagli operatori sanitari.
Il comportamento della massa di spettatori è stato comunque esemplare, ognuno con il proprio grado di sopportazione per un ascolto oggettivamente impegnativo, le prime defezioni essendosi registrate solo dall’«Offertorio» in avanti. Un forte aiuto è giunto al pubblico dai maxischermi che proiettavano il testo latino e la relativa traduzione italiana passo passo, replicandosi ad ogni ripetizione: anche i più adusi al denso testo apocalittico di Tommaso da Celano che principia «Dies irae, dies illa» hanno così potuto veder svelato il significato di quei versi spesso criptici, mentre la reiterazione insistente di alcune giaculatorie imploranti e immagini terribili, specie nel numero finale della partitura ch’è tutto una invocazione disperata alla divinità («Requiem aeternam», «Libera me, Domine», «in die illa tremenda»), ha contribuito a completare il sentimento di affanno cosmico trasmesso subliminalmente dalla musica.
Resta da riferire sulla qualità artistica dell’esecuzione, il compito sempre più arduo. Diceva Fedele d’Amico che l’esito di una recensione teatrale dipende anche da cosa il critico ha mangiato a cena prima dello spettacolo. Lo stesso deve certamente valere pure per la prestazione degli esecutori, estendendosi le cause dell’esito ben al di là di uno specifico menù. Cosa è certa che se avessi dovuto riferire separatamente sull’impressione ricevuta dalle tre singole esecuzioni, i «miei venticinque lettori» di manzoniana memoria avrebbero trovato tre giudizi molto differenti.
Ho perso il conto di quante volte io abbia avuto la fortuna di ascoltare dal vivo il Requiem verdiano diretto da Muti, con nomi altisonanti di solisti, cori e orchestre, cominciando da quello del marzo 1977 proprio a Bologna (per i nostalgici: Ricciarelli, Cossotto, Luchetti e Nesterenko i solisti), quando Muti contava appena 35 anni ed io meno della metà: era quella l’epoca – proseguita per altri 3 decenni – del Muti infuocato, degli stacchi di tempo nervosissimi, del gesto dionisiaco che si ripercuoteva tutto sulla qualità del suono, sempre vibrante e acceso.
Ebbene, il Requiem dello scorso 15 dicembre a Ravenna era sembrato l’opposto: un “Requiem per Dioniso”, quasi anaffettivo, forse volutamente scarico di emozione, con intere sezioni eseguite in modo affrettato, massime quelle in cui i solisti s’intrecciano a due, a tre («Salva me, fons pietatis», «Recordare, Jesu pie»), come in un atteggiamento scettico verso il corpo sonoro di quelle voci oggettivamente di calibro non immenso. Diretta conseguenza – insolita, e dunque straniante – n’è stata l’assoluta mancanza di quel senso di spossatezza che sempre ci pervade al termine della lunghissima parabola del «Dies irae», dove veramente un minuto almeno di pausa diventa necessario a tutti, prima di proseguire l’ascolto, per ritornare con i piedi sulla terra dopo aver provato le più alte vertigini cui ci conduce lì la musica di Verdi, mentre in quella anomala circostanza neppure il direttore d’orchestra ha sentito il bisogno di una minima sosta, prima di attaccare nuovamente con le note dell’«Offertorio».
Sensazione di superficialità emotiva che non si è invece ripetuta alla replica riminese, quando tutti gli esecutori sembravano più concentrati, più partecipi al progetto comune. Il sentore era allora quello di una interpretazione musicale che andava man mano ricomponendosi, quasi ricucendosi dopo la necessaria frammentazione subita nelle due settimane precedenti ad opera dei giovani direttori alternatisi sul podio: una ritrovata coesione interpretativa, che ha raggiunto il pieno compimento a Bologna, con la sensazione che il Maestro avesse finalmente ripreso pieno possesso della partitura. Non era invero più il suo Requiem incandescente del secolo XX, ma di certo un Requiem coinvolgente, alfine, e innegabilmente toccante nel profondo; nonché – per le orecchie più consapevoli – originale in certi dettagli, come quel “portamento di voce” ascendente richiesto al soprano dal Sol centrale verso il nulla, che aggetta sul baratro del «Rex tremendae majestatis», secondo una lezione testuale – tanto incerta e atipica, quanto preziosa e suggestiva – recuperata trent’anni fa dal manoscritto autografo verdiano e introdotta a stampa nell’edizione critica di David Rosen, da qualche tempo poi adottata virtuosamente nelle concertazioni di Riccardo Muti (forse l’unico a farlo, nel panorama mondiale, l’unico ad essersi chiesto il possibile significato di quel segno grafico anomalo).
Anche fra i solisti si è assistito a una crescita qualitativa di recita in recita, particolarmente evidente nel tenore Klodian Kaçani, che a Bologna ha superato con maggior sicurezza quelle frasi più impervie che a Ravenna lo avevano messo in difficoltà, a cominciare dal primissimo «Kyrie, eleison» a voce fredda. Del basso Riccardo Zanellato, l’artista oggi più assiduo nelle produzioni di Muti, sono noti da tempo rigore, affidabilità e prestigio. Se il mezzosoprano Isabel De Paoli vantava probabilmente il colore di voce più affascinante nel quartetto dei solisti, con un paio di discese in note di petto d’irresistibile fascino, è sul giovanissimo soprano armeno Juliana Grigoryan (classe 1998) che si è puntata l’attenzione di tutti: voce non potentissima, ma capace di correre al meglio nei tre differenti spazi, chiara nella dizione, incisiva nell’articolazione della frase, varia nel fraseggio, pienamente sicura negli acuti pericolosissimi di questa partitura (ottimali tanto il Do sfogato a tutta forza, quanto il Si bemolle piucchepianissimo). Più che una promessa, la diremmo una certezza per i prossimi decenni. Due soli suggerimenti, se concessi: sfruttare di più le gradazioni intermedie tra il piano e il forte, invece di prediligere le dinamiche estreme, e valutare meglio l’outfit per simili concerti (nelle tre sere, l’abbigliamento era più consono all’atto primo della Traviata che a una Messa da Requiem, con i capelli sciolti, i lunghi boccoli cadenti sulle spalle nude e l’ombelico in trasparenza).
L’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, come abbiamo già rilevato molte volte, è “giovanile” solo anagraficamente, essendo in grado di prestazioni ben superiori a quelle di certe orchestre italiane stabilmente professionali. La coda strumentale dell’Offertorio è stata ogni sera fra i momenti più emozionanti dell’intera esecuzione. Un particolare elogio alle trombe del «Tuba mirum», semplicemente perfette, e allo struggente fagotto solista del «Quid sum miser». Il coro, vero protagonista di ogni Requiem, è doppiamente degno di lode non trattandosi di una compagine fissa, ma dell’unione di uno storico coro dedito alla musica rinascimentale (Cremona Antiqua) a una compagine ravennate di recente formazione (intitolata a Cherubini come ideale pendant all’orchestra fondata da Muti), la cui anima e guida è nondimeno in entrambi i casi quel fine musicista di nome Antonio Greco (sebbene fisicamente assente da queste esecuzioni). Ad essi si sono ulteriormente affiancati alcuni aggiunti esterni, per il totale di un’ottantina di voci.
A conclusione, le note di costume. Sugli applausi finali della recita riminese, un gruppetto di giovani dalle prime file di platea ha offerto al direttore una bandiera tricolore su cui campeggiava la scritta «W Verdi e Manzoni», che il Maestro ha disteso ed esibito fra le ovazioni del pubblico. Mancava al completamento dell’osanna il suo cognome; ma era quasi sottinteso, in forza di una sempre più sentita identificazione fra l’etica civica di Muti e un sano spirito di italianità. L’ormai tradizionale discorso politico del Maestro sulla disastrosa situazione della musica in Italia è giunto però soltanto al termine dell’esecuzione bolognese, preceduto da una sorta di dedica del Requiem alle vittime di eccidi, invasioni, carestie e assideramenti invernali, soprattutto fra i bambini.
«Sono ormai diventato negli anni una specie di fastidioso rompiscatole – dice – avendo combattuto tutta la vita per la salvaguardia della musica in Italia». Ai temi di sempre e sempre inascoltati (giovani diplomati con lode nei conservatori italiani che rimangono abbandonati a loro stessi, intere regioni italiane senza teatri d’opera e senza orchestre, contro le 18 attive nella sola città di Seul: «non ne abbiamo altrettante in tutta l’Italia!»), si è aggiunta la non meno antica crociata per la traslazione delle spoglie di Luigi Cherubini nella natia Firenze, dove l’attende dalla morte un cenotafio in Santa Croce: «Ne ho parlato a Presidenti della Repubblica, a Primi Ministri e Ministri della Cultura: mi hanno detto che bisognerebbe ottenere il consenso degli eredi... Degli eredi?! quali?! Qualcuno – dice divertito – mi ha consigliato di rivolgermi a Jovanotti: una qualche parentela fra Lorenzo e Luigi Cherubini potrebbe anche saltar fuori... Ad accoglierlo trionfalmente a Firenze come fu accolto a suo tempo Rossini – il tono è ora sarcastico – potremmo avere un’orchestra e un coro italiani uniti a un’orchestra e un coro francesi; così, fra gli accordi musicali, troveremmo forse anche un accordo per i problemi politici del momento. Spero dunque che qualcosa si muova: per questo sono abbastanza... pessimista!».
Da ultimo, la gag sulla facilità di diventare direttore d’orchestra, «una carriera oggi aperta a qualunque mancato strumentista»: affidata la bacchetta a Francesco Bernardi, fondatore di Illumia, fargli dirigere l’Orchestra Cherubini dal podio diventa un gioco da ragazzi. E fra sano orgoglio e studiato understatement: «Anche per questo ho già disposto che per il mio funerale (mia moglie lo sa, convinta com’è che morirò prima io) non voglio applausi ma silenzio, come nei funerali che vedevo da bambino a Molfetta, dove a parlare erano soltanto le marce funebri suonate dalla banda; e in chiesa ho predisposto la diffusione di musiche che – conclude in tono sornione – per sicurezza ho già scelto rigorosamente dirette soltanto da me!».
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