Mancava un disco tutto suo, nella scena sempre sorprendente della “tradizione in movimento” del nostro Sud, focus speciale sulla Puglia salentina e sulla vocalità di ricerca che attinge alle tecniche trad sedimentate nella catena orale delle generazioni. Adesso Rachele Andrioli l'ha realizzato: dopo aver partecipato a un'infinità di festival, aver collaborato con un ventaglio prezioso e vario di artisti come Pier Faccini, Arto Lindsay, Baba Sissoko, Roopa Mahadevan, Rocco Nigro. Sul palco è spesso da sola: la voce, spesso moltiplicata attraverso i devices elettronici che usa in tempo reale, la chitarra, il flauto armonico, lo scacciapensieri, i tamburelli a cornice. Il disco si intitola Leuca, ed è appena uscito per la label Finisterre. L’abbiamo incontrata al Festival Musicale del Mediterraneo di Genova, a Villa Bombrini, in uno dei primi concerti di presentazione, in solo totale.
«Leuca è un nome femminile, e mi interessava molto» racconta Rachele Andrioli. «È il nome del capo estremo di Puglia dove sono nata e vivo, Leuca significa “bianca”, ed è un colore che non è un colore perché li contiene tutti, Qualcuno dice che era il colore dell'alba per le navi che si avvicinavano, qualcuno quello della spuma del mare sulle scogliere».
«Dove c’è un santuario, dove c’è un faro le persone vanno a riflettere, crescere in un luogo di mare estremo, tra l’ultimo lembo di terra e le onde ti condiziona: sia perché chi viene nella tua terra può arrivare dal mare, e qui basta pensare ai migranti, che sbarcano in una zona in qualche modo neutrale, dove non c’è né accoglienza né rifiuto netti, e inevitabilmente si creeranno influssi reciproci: musicali, gastronomici, e via citando. Poi, chi vive in un luogo estremo di mare (un finisterrae: termine che ricorre in due titoli del disco, peraltro) sa cosa vuol dire essere esposti a repentini cambiamenti del tempo, le tempeste che sbucano dal nulla, le bonacce: non può non influenzarti l’umore».
Scrivi per impulso improvviso, fissandoti un’idea, un pensiero da qualche parte, o hai tempi lunghi di elaborazione?
«Scrivo sempre per impulso improvviso, devo fissare l'idea, la sensazione, il tumulto emotivo sul primo pezzo di carta che trovo, anche se ho un’ottima memoria, sia anche un biglietto d’aereo, com’è realmente successo. Ho la borsa piena di tracce scritte che magari restano lì a consumarsi, a spiegazzarsi».
Vuoi provare a raccontare il focus delle canzoni, una a una?
«"Te spettu": mi sono messa nei panni di una donna che aspetta il marito che è partito, emigrato. Indipendentemente dal fatto che lui tornerà. Significa non solo “ti aspetto”, ma anche “ti spetto”. C’è il violoncello del mio carissimo amico Redi Hasa, un dono prezioso».
«"L’Amareggiata": c’è un ovvio gioco di parole tra “mareggiata” e “amareggiata”, ero sulla costa e stavo scrivendo un brano parlando con me stessa, dandomi del tu, e in corso c’era una mareggiata che mandava a sbattere le onde addirittura sulle finestre delle case, tutti cercavano riparo, a un certo punto mi sono accorta che non parlavo più io, ma mi ero messa nei panni di una donna del Mali, una donna che non aveva mai visto il mare, il mio contrario, che si avvicina alla costa con un gommone, e poi il gommone cede, e lei con la forza della disperazione, che non ha mai nuotato, riesce a dare qualche bracciata verso la costa perché sente di avere ha ancora tante cose da fare nella vita, occhi da incontrare, piante da far crescere».
«"Preghiera del Capo": mi è scaturita fuori pensando alla bellezza delle albe e del tramonto sullo Ionio, è un gioco con le voci, una preghiera in realtà fatto di piccoli consigli».
«"Fimmana de mare". È per percussioni e voci. In questo caso l'ho scritto di botto, l'ho fatto fluire, dimenticandomi per un momento quell'ansia del controllo che a volte mi limita, l'ho lasciato com'è venuto fuori, col suono ridondante e un po’ africano di Jeu, che significa “io”, e solo nel dialetto che parla sul Capo del Salento. In alcuni brani, come qui, ci sono altre voci femminili: sono quattro donne che fanno parte con me di un coro che ho messo assieme e che ne riunisce circa quaranta, tutte persone che amano cantare per il semplice puro piacere di farlo, ma perlopiù non professioniste. È il puro fascino della polifonia».
«"Luna Otrantina" è un omaggio a Daniele Durante e a sua cugina Caterina, il nucleo di musica e pensiero da cui nacque a metà degli anni Settanta il Canzoniere Grecanico Salentino. Storia vera di una terra che si fa successione di immagini forti e poesia. Anche qui lo splendido arrangiamento e il violoncello è opera di Redi Hasa».
«"De finibus terrae" l'ho scritto assieme alla grande poetessa salentina Eleonora Ines Nitti Capone, ed è cantato interamente dal coro. Si parla di com’è la condizione di una donna nata “dove finisce la terra”, e lì c’è nascosto l'aneddoto di quando e come ho cominciato a cantare, nel verso “dove cresce il noce è nata la mia voce”. Quando ero bambina dalla mia finestra potevo vedere le cime di alberi di agrumi di un giardino che intuivo bellissimo e misterioso, al di là delle mura alte. Un giorno ho chiesto a mio padre se potevo visitarlo, e mi ha dovuto dire che no, non potevo andarci. Però dalla mia finestra vedevo spuntare al centro un nobile albero di noce, e allora ho preso l'abitudine di cantare, di saggiare la mia voce rivolgendomi al noce. Gli alberi sono importanti, in Puglia, pensa solo agli ulivi secolari e a tutte le brutte storie recenti di malattie: sempre mio padre mi ha insegnato ad avere rispetto per quelle piante antiche, che ci rendono fratelli in tutto il Mediterraneo, e che hanno in sé il gene maschile e femminile assieme. Io trovavo rami di ulivo per terra, lui mi diceva: sono gli ulivi che sanno potarsi da soli, e lasciano cadere i rami che ne intralcerebbero la crescita e la buona vita».
«"Leuca”, ci tengo molto, a quel brano, sono solo le mie voci moltiplicate, parlo della mia nascita, di mia madre, di una nascita futura».
«Ho poi voluto omaggiare il grande Enzo Avitabile cantando la sua meravigliosa "Tutt’eguale song’e criature", e Nusrat Fateh Ali Khan con voci del coro e percussioni con "Mast Qalander". L'ho fatto perché abito in un condominio di quattro unità abitative e io sono l'unica italiana, gli altri tutti dello Sri Lanka. Durante la quarantena mi sono sentita molto simile a loro, e un giorno l’ho cantata per loro, erano felici».
«"Manifiesto" è un brano stupendo del cileno Victor Jara, il testo è mio, ma ispirato direttamente dall’originale».
«L’ultimo brano è "Finisterrae", che si collega direttamente a "De finibus terrae", chiudendo un cerchio. Ho coinvolto altre due donne da altri finisterrae d’Europa: la voce bretone di Elsa Corre e quella galiziana di Ugia Pedreira».
Tu arrivi dalla tradizione sonora. Parola che contiene la radice di “affidare “ e di “tradire”. Sapiens tramanda, non ha radici fisiche...
«Si ha (forse si deve avere) la presunzione di avere qualcosa di speciale dentro. È un ammortizzatore necessario per andare avanti, sennò non farei quello che faccio. Esattamente come l'identità: che non è mai univoca, siamo tante cose assieme. D'altra parte fare un primo disco solistico dopo tanta musica fatta assieme ad altri è un azzardo, come se dovessi mostrare una carta, e una sola, e dire: io sono questa cosa. Tornando alla tradizione: portare avanti una tradizione, essendo qui e oggi, non nel passato, potrebbe essere paragonato a un rapporto d'amore: è qualcosa su cui devi lavorare con costanza, nel presente, per tenere accesa fiamma».
«Portare avanti una tradizione, essendo qui e oggi, non nel passato, potrebbe essere paragonato a un rapporto d'amore: è qualcosa su cui devi lavorare con costanza, nel presente, per tenere accesa fiamma».
Ti esibisci molto spesso, ormai, da one-woman-band, con diversi strumenti che campioni in tempo reale, loop, moltiplicazione della tua voce sino a farla diventare un coro. Come lo vivi?
«Croce e delizia, limite e possibilità, direi. Quando suoni con un gruppo, o comunque con qualche altra persona è come se avessi attorno una fascia protettiva. Tu sei una parte di un insieme, non c’è spazio per la paura, il panico da palco, il momento della verità di quando inizia lo spettacolo».
«Io non credo in realtà di appartenere molto a questa epoca. Mi ci butto dentro».
«La tecnologia può renderti fragile, e ti espone a continui rischi, se qualcosa non va per il verso giusto. E io ho quasi sempre l'ansia del controllo. D’altra parte quando tutto funziona la sensazione di essere da sola su un palco è molto forte, molto coinvolgente, e posso fare cose che da sola, senza tecnologia, non potrei fare. Io non credo in realtà di appartenere molto a questa epoca. Mi ci butto dentro. D'altra parte è costituivo del mio carattere passare per estremi, buttarmi nelle cose: il coro e il solo totale, due antitesi. Il provare quasi un attacco di panico quando, nel mio mare, da una barca o da una canoa, vedo il blu profondo del mare aperto e decidere di tuffarmi proprio lì, dove sai solo che c’è sotto l’abisso. Sono una persona che vive di dualismi».