Le Mali 70, da Berlino a Bamako

L'irresistibile musica delle big band del Mali, l'entusiasmo degli europei e i rischi dell'appropriazione culturale: tutto in un film

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Una big band berlinese ritrova dei vecchi vinili di big band maliane e decide di partire per il Paese africano alla ricerca di musicisti da tempo spariti: questa è, in estrema sintesi, la storia di Le Mali 70, documentario del 2022 del regista tedesco Markus Schmidt e recentemente presentato al festival Musical Écran di Bordeaux.

Quella delle big band maliane era una musica che incarnava la speranza dell’indipendenza, prima che un colpo di stato vi mettesse fine. Ispirati da queste canzoni, i musicisti berlinesi si recano in Mali per ritrovare gli eroi della loro collezione di dischi. Una volta sul posto, si mettono alla ricerca delle origini delle canzoni, si meravigliano davanti alle vecchie immagini d’archivio e riportano in vita le sezioni fiati perdute per suonare con delle star maliane dimenticate, con discussioni spesso agitate sui ritmi corretti e la registrazione di un album nello studio di Salif Keita a Bamako, in sua presenza. 

Nel corso del loro viaggio i musicisti tedeschi sono testimoni non solo del rispetto, della solidarietà e della tolleranza dei maliani ma anche della loro fierezza rispetto a una disciplina in cui sono tra i migliori al mondo: naturalmente mi riferisco alla musica. Questo incontro culturale dà luogo a momenti musicali indimenticabili, a confronti di punti di vista, a sguardi, a sorrisi, ad amicizie che sbocciano. Ma non è tutto oro quel che luccica, come vedremo più avanti.

le mali 70

Gennaio 2019 e i berlinesi partono per Bamako con un obiettivo ben preciso: infondere nuova vita alla musica maliana degli anni Settanta, quella che incarnava la speranza dell’indipendenza e faceva brillare la scena culturale dell’Africa Occidentale. 

I musicisti dell’Omniversal Earkestra riescono così a incontrare le icone della leggendaria Rail Band, gruppo formatosi nel 1970 e in seguito conosciuto come Super Rail Band, Bamako Rail Band e Super Rail Band of the Buffet Hotel de la Gare de Bamako, al cui interno militarono musicisti del calibro di Salif Keita, Mory Kanté, Kante Manfila e Djelimady Tounkara.

Questo road movie rivela gli approcci differenti dei musicisti, senza tralasciare i malintesi culturali e la scoperta finale di un nuovo ritmo comune. 

Le Mali 70 contiene diversi frammenti di informazione interessanti su come il genere musicale delle big band si è sviluppato in Mali: come già accennato, è stato la colonna sonora delle lotte di liberazione che condussero all’indipendenza nel 1960 e ispirò molta della musica del decennio seguente, diciamo fino al 1968, quando un colpo di stato militare guidato da Moussa Traoré distrusse sia la rivoluzione sociale sia quella musicale.

In molte occasioni nascono paragoni con Cuba – sia come uno dei Paesi che appoggiò il Mali da poco liberato e dichiaratosi socialista, sia come il produttore di una sorta di musica simile – e uno dei musicisti che vediamo e sentiamo si definisce un Guevarista. Questa mia è un’osservazione buttata lì ma sarebbe stato interessante saperne di più su come la musica e i musicisti furono influenzati dal radicalismo politico.

Benché si ascolti molta musica maliana stimolante, questo film parla soprattutto dei musicisti tedeschi. O meglio, sì e no. Una locandina del film promette che «una big band di Berlino parte per un viaggio stradale insieme a leggendari musicisti del Mali», ma, a essere onesti, sentiamo ben poco dai musicisti tedeschi: li vediamo, prima in un bar di Berlino e poi in pittoreschi paesaggi africani, ma raramente vediamo come sono influenzati dalle loro esperienze.

le mali 70

Alla fine penso  questa è una debolezza, in quanto non si capisce bene perché la cinepresa stia seguendo questo specifico viaggio. Beh, è ovvio perché i tedeschi sono lì – chiaramente sono grandi fan, e musicisti talentuosi, di quella musica, e l’opportunità di incontrare i loro idoli deve essere stata davvero emozionante. Almeno, questo è ciò che supponiamo, perché il documentario evita le interviste e raramente mostra i musicisti coinvolti mentre si parlano, possiamo soltanto osservare passivamente. 

 Tutto ciò che sperimentiamo della vita maliana è mediato attraverso gli occhi di turisti occidentali. Similmente non è sempre facile capire l’apporto dei tedeschi alla parte strettamente musicale: indubbiamente sono dei buoni musicisti ma c’è qualcosa di turistico, se non addirittura coloniale quando la cinepresa si focalizza sugli occidentali che suonano musica africana.

Viene in mente un progetto comparabile, Buena Vista Social Club, che ora conosciamo bene grazie al film di Wim Wenders (un altro tedesco) ma che cominciò come un viaggio di scoperta del chitarrista statunitense Ry Cooder. Anche in quel caso c’era il pericolo che la storia principale non fosse sugli spettacolari musicisti cubani ma sul regista e sul musicista occidentali che li avevano “scoperti”. Dobbiamo eterna riconoscenza a Cooder per aver lasciato i cubani al centro del palco sia nel film sia nella colonna sonora. 

La linea tra andare in Mali a fare nuovi arrangiamenti di canzoni tradizionali d’importanza storica e l’appropriazione culturale è davvero sottile.

L’inevitabile album della Omniversal Earkestra che ha fatto seguito al viaggio oggetto di questo documentario vede i maliani come cantanti e musicisti di contorno e converrete con me che la linea tra andare in Mali a fare nuovi arrangiamenti di canzoni tradizionali d’importanza storica e l’appropriazione culturale è davvero sottile. A un certo punto, uno dei musicisti maliani minaccia di smettere di suonare perché uno dei tedeschi riarrangia una canzone maliana vecchia di cinquant'anni cambiando la clave – il modulo ritmico che caratterizza la musica maliana (e quella cubana): agli africani semplicemente suona sbagliata. 

Ammetto di non avere conoscenze musicali sufficienti per riconoscere se il cambiamento ha davvero rovinato la canzone, ma in ogni caso avrei apprezzato se il documentario avesse spiegato di più, per far capire che cosa era stato cambiato e quali erano state le conseguenze.

Alla fine il problema è risolto quando un uno dei cantanti africani dice «è tutto jazz», dando così ai tedeschi carta bianca per riarrangiare la musica come meglio credono. Mi viene in mente un secondo progetto comparabile, Graceland di Paul Simon, ma vi risparmio le mie riflessioni al riguardo.

La musica di questo film è bella in maniera spettacolare e anche il Mali è splendido, ma alla fine si rimane con l’amaro in bocca: tutto ciò è commerciabile solo grazie alla presenza occidentale? Davvero non ci sono giovani musicisti maliani in grado di fare qualcosa di simile? Non è certo Mali 70 a rispondere, vista la mancanza di apparente interesse per ciò che accade nel Paese. Questo è un film che mostra il meglio e il peggio del talento musicale ossessivo: è un assoluto piacere guardare le molte scene dei musicisti che si ritrovano per collaborare e produrre suoni che non fatico a definire fenomenali, ma la preoccupazione per la musica alle volte arriva a spese del contesto. 

Forse è abbastanza che un film ci ispiri ad andare fuori e scoprire di più da soli, ma questa volta avrei preferito sapere di più non solo su cosa stava succedendo ma sul perché.

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