Chicago, New York, Lisbona: le città dell’avanguardia a Jazz em Agosto 2022
Dal 30 luglio al 7 agosto si è svolta la 38esima edizione della manifestazione diretta da Rui Neves
Jazz em Agosto, Lisbona, 30 luglio-7 agosto 2022, 38esima edizione, per la direzione artistica di Rui Neves, che segue questo festival dalla metà degli anni ‘80: nessun festeggiamento ufficiale in programma, ma quest’edizione intitolata “Chicago – New York – Lisboa” ci è sembrata per molti versi una festa: festa in primo luogo afro-americana e americana, con alcuni dei musicisti più interessanti della scena chicagoana e newyorchese, dagli Irreversible Entanglements alla Exploding Star Orchestra, da Ava Mendoza a Jamie Branch, passando per Nat Wooley per finire con il New Masada Quartet. Un percorso, quello made in USA, che ha caratterizzato fortemente il festival, accanto alla scena improvvisativa portoghese e una breve quanto stimolante deviazione londinese: il jazz delle città, dunque, luoghi dove la musica nasce da un preciso tessuto sociale e politico peraltro in continua evoluzione, a testimoniare il nostro tempo globalizzato ma anche, ancora, irriducibilmente locale, situato e radicato in specifiche culture e sub-culture.
Inizio attesissimo, nello splendido parco della Fondazione Gulbenkian, con gli Irreversible Entanglements che in Italia si erano visti in primavera a Novara e a Padova, e che qui tengono alta la tensione tra lo spoken word di Camae Aweya, aka Moor Mother – duro messaggio di protesta sociale e incitazione all’azione –, e i suoi validi sodali a fiati (Aquiles Navarro tromba, Keir Neuringer sax alto), contrabbasso (Luke Stewart) e batteria (Tcheser Holmes), in un costante crescendo di toni apocalittici che solo alla fine si stempera in atmosfere meno cupe e persino inaspettatamente delicate: “They talk about freedom, but do you know free love?” recita quasi sussurrando Camae, scuotendo timidamente quasi a mo’ di danza il corpo, finalmente liberato.
Temperie diversa, ma ancor più nel segno della musica comunitaria e della contemporaneità radicata nella tradizione free, il secondo concerto serale chicagoano con Rob Mazurek e la sua Exploding Star Orchestra, in cui spiccano per coesione, coerenza e vitale energia tanto il collettivo quanto gli interventi solistici o a due dei suoi tredici membri, per un tessuto musicale ora denso e impregnato di groove, ora più dilatato e straniante, sempre perfettamente calibrato. Maestria e intelligenza musicale di un leader che non smette mai di sorprendere percorrendo nuove strade (musicali e non, ad esempio anche come artista visivo con pittura, scultura e installazioni), improvvisatori di grande sensibilità – il piacere di trovare, tra gli altri, i flauti di Nicole Mitchell, giovane veterana della AACM da un lato, e la più giovane trombettista Jamie Branch, promessa mantenuta della scena sperimentale a cavallo tra Chicago, Baltimora e New York dall’altro, a mettere insieme diverse generazioni di ricerca sonora e civile – e musica che riscalda, con Damon Locks e il suo spoken word a un’antesignana cornetta del telefono e la sua danza performativa, misto di arti marziali e capoeira attorno al palco, che trascina per un attimo lo stesso Mazurek.
Damon Locks che abbiamo poi ritrovato con il Black Monument Ensemble: anche in questo caso, impegno sociale, canto di protesta e di speranza, con tre voci femminili, il clarinetto di Angela Bat Dawid, percussioni e batteria (Arith Smith, Dana Hall), e gli interventi verbali, all’elettronica e alla danza del leader; concerto molto apprezzato dal pubblico, anche se è mancata forse quella grinta graffiante sperimentata nelle serate precedenti.
A completare la serie dedicata alla Wind City – come pure all’etichetta discografica International Anthem di cui il festival ha seguito qui le produzioni – il duo di Nicole Mitchell e Moor Mother da un lato, e di Jamie Branch e Jason Nazary, ovvero gli Anteloper, dall’altro: set tardo-pomeridiano, quest’ultimo, che ci ha fatto conoscere la trombettista ora di stanza a Brooklyn soprattutto all’elettronica, ampiamente utilizzata anche da Nazary. Improvvisazioni slabbrate, atmosfere urbane, strati di loop alla tromba che si susseguono incalzati dalla batteria, con l’ironico-affettuoso pupazzo di Kermit appeso all’asta di un microfono, e antilopi caleidoscopiche proiettate sullo sfondo: contemporanea psichedelia per un duo che varrà la pena di rivedere presto anche in Italia.
Ad anticipare New York, invece, il passaggio a Londra con Ahmed non ha mancato di sorprendere con piacere chi non conoscesse questa formazione: Pat Thomas al piano – figura di spicco della scena improvvisativa britannica –, Seymour Wright al sax alto, Joel Grip al contrabbasso e Antonin Gerbal alla batteria, in un omaggio serratissimo alla musica del newyorchese Ahmed Abdul-Malik (contrabbasso e oud, già al fianco di Blakey, Weston e Monk, e a cavallo tra anni cinquanta e sessanta noto per il suo connubio tra jazz e musica nordafricana), con il pianismo ampio, spesso percussivo, di Thomas, la versatile e instancabile batteria di Gerbal e l’ostinatissimo Wright ad un sax alto scevro da qualsiasi fraseggio, a punteggiare il percorso armonico-ritmico del quartetto.
New York, si diceva, o meglio Brooklyn, ben rappresentata qui da Ava Mendoza, a regalare un intenso e convincente solo – l’avevamo del resto già potuta apprezzare al Bergamo Jazz Festival in primavera –, oltre che dall’imponente “Seven Storey Mountain VI” di Nat Wooley. Il progetto (definito anche “Ecstactic Song Cycle”), ispirato all’opera dello scrittore e monaco trappista pacifista Thomas Merton (1915-1968), rappresenta la sesta tappa di un nucleo iniziato più di dieci anni fa come trio, coinvolgendo nel corso degli anni più di trenta musicisti di diverso background musicale e riunendo qui, accanto alla tromba del leader, due violini, una voce, due tastiere, tre chitarre e tre batterie. Musica che, introdotta dal coro Gulbenkian e basata su un preciso procedimento compositivo (spartiti pensati per i singoli musicisti, istruzioni non idiomatiche per l’azione musicale, materiali registrati dalle precedenti performance e poi rimanipolati) cresce inizialmente con levità, sul tappeto sonoro costruito con sapienza da Chris Corsano, Teun Verbruggen e Ryan Sawyer alle batterie. Sorta di meditazione squarciata dalla chitarra convulsa di Desprez e dagli interventi di ricerca sonora della tromba di Wooley, per arrivare ad una massa sonora totale e caotica, muro di suono che infine viene meno per lasciare spazio ad atmosfere più dilatate e riflessive, e di nuovo il coro, a mo’ di chiusura, ad intonare i primi versi di sapore femminista di “Reclaim the Night”, della folksinger americana Peggy Seeger.
Ma da New York Jazz em Agosto ha portato a Lisbona anche il Borderlands Trio (Kris Davis piano, Stephan Crump contrabbasso e Eric McPherson batteria), in un concerto di grande raffinatezza e intesa a tre, e un susseguirsi di episodi all’insegna dell’esplorazione e dell’interazione dialogica – oltre al duo di Sara Schoenbeck al fagotto (già al fianco di Braxton, nella Tri-Centric Orchestra e nel Gravitas Quartet di Wayne Horvitz) e del pianista Matt Mitchell, in un set austero e fragile di impianto impianto classico-contemporaneo.
Degna conclusione di un festival generoso e senza compromessi – dopo l’ampia panoramica sulla scena improvvisativa lisbonese, tra cui di particolare rilievo il quartetto Torquise Dream del violinista Carlos Zìngaro, improvvisatore di lungo corso a livello europeo, come pure il duo di Pedro Carnero alla marimba e Rodrigo Pinheiro al piano –, infine, il concerto finale di John Zorn e del suo New Masada Quartet.
Disincantata bellezza tra brani di sapore medio-orientaleggiante guidati dalla chitarra di Julian Lage, e interventi di rivisitazione del repertorio Masada, con il sax di Zorn – memorie ornettiane, melodie strapazzate che si insinuano qua e là, urgenza espressiva, ma anche suono rotondo e avvolgente – a ricordarci felicemente come si può fare musica, oggi, nelle città.
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