Brian Bamanya, l’inventore dell’Afrorack – vale a dire il primo sintetizzatore modulare DIY del continente africano – ha pubblicato il suo album d’esordio The Afrorack sull’etichetta ugandese Hakuna Kulala, sussidiaria della più famosa Nyege Nyege, una delle case discografiche del momento, di cui si è accorta anche l’Europa (e infatti quest’estate molti artisti della Nyege Nyege sono impegnati in tour o ospiti di festival in giro per il continente).
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Ci sono voluti sei mesi di ricerche, successi e delusioni, ma alla fine Bamanya ce l’ha fatta, la bestia era operativa, l’Afrorack, il primo sintetizzatore modulare interamente auto-costruito impiegando molti materiali di scarto, era pronto e funzionante.
Potevamo non interessarci a una storia così? Se state leggendo l’articolo, conoscete già la risposta.
Sviluppato simultaneamente negli Stati Uniti da Robert Moog e Donald Buchla negli anni sessanta del Novecento, il sintetizzatore modulare è presto adottato e reso popolare da musicisti-tecnici di laboratorio pazzi per le sperimentazioni sonore, da Frank Zappa ai Beatles. Dietro il suo muro di cavi si compone di un insieme di moduli indipendenti, complementari e personalizzabili – oscillatori, amplificatori, filtri... – che, in funzione della loro architettura e del modo in cui sono interconnessi (patchati in gergo tecnico) produrranno suoni unici lavorati in diretta e modulabili all’infinito.
È la primavera del 2018 quando Bamanya parte alla ricerca di componenti elettronici presso i negozi di riparazioni informatiche di Kampala per iniziare a lavorare al primo sintetizzatore modulare africano.
Sì, ma da dove cominciare? Brian fa riferimento a dei tutorial e a degli schemi di circuiti integrati recuperati su internet. Il risultato si avvicina di molto agli standard Eurorack (norma e formato di sistema modulare concepiti nel 1955 dal musicista e ingegnere tedesco Dieter Döpfer) ed è una dimostrazione di vera prodezza tecnica. All’africana, e allora… Afrorack!
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Ma non è finita: la sua invenzione piace. Il giovane ugandese partecipa all’Atlas Electronic Festival a Marrakech e al Nyege Nyege Festival, nella giungla di Jinja in Uganda, e in entrambe le occasioni è un successo.
Brian vuole sì fare musica, valorizzare quella africana, ma prendendo le distanze dalla tecnica statunitense o europea. «La nostra eredità non arriva né da Detroit né da Chicago e neanche da Berlino, ma dalle nostre proprie tradizioni musicali e sono convinto che proprio qui in Africa avrà luogo la prossima rivoluzione delle musiche elettroniche»: diceva così Brian Bamanya nel 2019 alla rivista Pan African Music. Visto cos’è successo negli ultimi tre anni e di cui abbiamo spesso scritto, bisogna ammettere che il ragazzo ci ha visto lungo.
«La nostra eredità non arriva né da Detroit né da Chicago e neanche da Berlino, ma dalle nostre proprie tradizioni musicali e sono convinto che proprio qui in Africa avrà luogo la prossima rivoluzione delle musiche elettroniche» – Brian Bamanya
Per quanto riguarda i sintetizzatori attuali, reperibili con difficoltà sul mercato ugandese – c’è un solo negozio in tutto il continente africano che vende moduli Eurorack – il più delle volte sono di fattura statunitense o tedesca e hanno un prezzo esorbitante. Ma Bamanya, contrario allo strumento industriale, aggiunge un particolare: «Il fascino del DIY risiede nel suo potere di emancipazione: essere capace di costruirsi in autonomia uno strumento al fine di creare della musica, trovo tutto ciò molto anti-consumistico e ovviamente mi piace da matti».
Incuriositi, vero? Anzi, alcuni di voi vorrebbero costruire dei moduli in casa. E allora ecco il video preparato da Brian Bamanya e fatene buon uso.
Sì, ma come suona questo sintetizzatore modulare DIY?
E cosa vogliamo dire di questa meraviglia?
Realizzando musica sotto il nome Afrorack, Brian Bamanya crea suoni che possiedono uno spirito e una sostanza che li separa dal tipo di musica generalmente fatto coi sintetizzatori modulari. Dove molti dei suoi colleghi si limitano a mettere insieme in maniera piacevole suoni astratti provenienti dalle loro configurazioni modulari, Bamanya invece crea composizioni groovy e melodiche col suo strumento modulare fatto in casa e con effetti.
Ma veniamo a The Afrorack, l’album d’esordio di Bamanya che mette in mostra la creatività e l’energia del produttore. I suoi punti di partenza sono spesso astrazioni di musica acid e techno ma Bamanya piega i ritmi e le diverse scale dell’Africa Orientale dentro queste strutture familiari, frantumandole fino a ridurle in schegge.
Questa attitudine è particolarmente evidente nel brano “African Drum Machine”, nel quale Bamanya usa un Euclidean rhythm sequencer per dividere i suoi segnali CV in complessi modelli algoritmici che imitano le strutture poliritmiche presenti in molte forme musicali dell’Africa Orientale. A un ascoltatore distratto potrebbe suonare come techno in 4/4, ma, se facciamo attenzione, sentiremo strati differenti di batteria e oscillatori dentellati che rimbalzano tra di loro creando nuovi ritmi ipnotici.
L’approccio è simile in “Why Serious?”, nove minuti in cui linee di basso “dubbate” e suoni percussivi “plasticosi” creano un ibrido frenetico di elettronica astratta e suoni dei club più visionari dell’East Africa.
Se prendiamo “Inspired” e “Last Modular”, i loro bassi pesanti sembrano echeggiare i suoni psichedelici di Shakleton o degli African Head Charge di Adrian Sherwood: con spostamenti tonali dal sapore lisergico e percussioni di precisione ingegneristica, entrambi i brani suonano provocatoriamente metallici ma scolpiti da un produttore che ha sempre e totalmente tutto sotto controllo.
E nei brani con beat meno pesanti, come l’iniziale “Osc” e “Rev”, Bamanya sembra fare un accenno consapevole alla storia della musica modulare, avvicinandosi all’universo cosmico – o, se preferite, kosmische - di Popol Vuh, Klaus Schulze ed Emeralds, aggiungendo l’intensità ritmica dell’Africa Orientale.
Tecnico brillante, Afrorack è ancora alla ricerca di sé dal punto di vista artistico: «Imparo ogni giorno», assicura lui con umiltà. Le idee ci sono: suonare dal vivo con musicisti tradizionali, incorporare ritmi acholi o baxiga, e altro ancora.
Per il momento The Afrorack decreta quella di Bamanya una delle voci significative della musica elettronica progressiva.
«Un synth modulare è come un organismo vivente e, proprio come per il corpo umano, bisogna trovare una certa armonia tra i diversi organi. Il mio sistema è puramente analogico, si comporta dunque in maniera molto organica, il che cade a pennello perché adoro essere sorpreso» - Brian Bamanya