Che il cineasta Marco Filiberti nutrisse interesse per Richard Wagner lo si coglieva già nel suo film Il compleanno: al Tristan assisteva il quartetto di protagonisti di una vicenda di amore e morte a forte tasso omoerotico.
Una decina di anni dopo, Filiberti torna a Wagner con la sua nuova “opera cinematografica”, Parsifal. Non si tratta di un’opera filmata né di un lavoro musicale strettamente parlando, benché il materiale promozionale della pellicola lo descriva in maniera decisamente enfatica come «un importante e appassionato progetto di opera d’arte totale, un viaggio iniziatico che conduce dritto al centro del mistero delle nostre esistenze, dove spiritualità e desiderio non sono mai stati così prossimi l’uno all’altro».
La stessa vicenda dell’ultima opera di Richard Wagner è trattata con una discreta libertà così come la scelta di brani che accompagnano le immagini patinatissime del film (la luminosa fotografia è di Mauro Toscano).
La vicenda di questo Parsifal si apre infatti a bordo della nave Dedalus all’ancora in un porto non meglio identificato. Uno dei due marinai, Cador (come il personaggio delle saghe arturiane), accenna al canto del timoniere "Frisch weht der Wind der Heimat zu" del primo atto del Tristan. L’improbabile dialogo di Cador e Palamède (come il comandante delle truppe greche nella guerra contro Troia) viene interrotto dall’arrivo di uno sconosciuto vestito di una tunica e un bastone che per non sapere nulla né delle sue origini né della sua identità parla in maniera decisamente forbita. Così come le due prostitute che si aggirano fra le banchine di quel porto anonimo, Elsa e Senta (e qui Lohengrin e Daland potrebbero pure giustamente risentirsi), in servizio presso l’equivoca taverna gestita da Kundry, l’unica che sembra sapere chi sia il giovane sconosciuto. Stacco.
Lo sconosciuto vaga fra bellissimi paesaggi della Val d’Orcia con il “Waldweben” del Sigfried in sottofondo, fra le fotogeniche rovine di San Galgano (inevitabile il richiamo alla spada nella roccia della saga arturiana) si imbatte in una comunità di cavalieri guidati dal sofferente Amfortas, ferito all’inguine e lacerato da un “atroce desiderio” che lo dilania. Amfortas officia un rito sacro, che provoca nello sconosciuto verbosissime riflessioni.
Stacco. Non c’è Klingsor e nemmeno il suo giardino incantato ma c’è la taverna di Kundry popolata di marinai e prostitute in un’atmosfera che rimanda a Genet o almeno alla sua declinazione fassbinderiana. C’è anche un avventore sconosciuto che da due settimane frequenta la taverna: è un tale Philip, che altri non è se non Amfortas. Arriva anche lo sconosciuto vestito, come gli altri, in abiti anni venti.
In versione “femme fatale”, Kundry rivela il nome dello sconosciuto, Parsifal, il puro folle, e tenta una seduzione che culmina nel bacio “a lungo negato”, un bacio che scatena un autentico duello rusticano fra Amfortas e Parsifal sulle note della danza dei sette veli della Salome straussiana che diventa un autentico delirio omoerotico con immagini di amplessi forse solo desiderati fra i due uomini e fra Amfortas e Kundy, “Nostra Signora delle Misericordie”.
L’amplesso furioso fra i due provoca la violenta reazione di Parsifal che colpisce Amfortas col pugnale aprendo la ferita destinata a non chiudersi e si abbandona a un delirio erotico-mistico. Più vicina al racconto wagneriano la conclusione, divagazioni sul Tannhäuser a parte (anche musicali) a sottolineare il pentimento del Parsifal peccatore con Kundry in versione Maddalena che lava i piedi del nuovo Salvatore. Questa volta illuminato dalla luce della sapienza, dopo un lungo viaggio alla ricerca di sé Parsifal arriva nella “terra del re pescatore” rimasta senza re, senza fede e senza stagioni dove “soffia un vento nuovo ma non viene dall’Est”. “Tu sei il Gral”: Parsifal è il nuovo Salvatore che “amando ha visto morire la morte”.
Enfatico fuori misura, questo Parsifal di Filiberti è appesantito da un linguaggio esageratamente letterario e da un citazionismo esasperato, che costringe il manipolo di impegnati attori della Compagnia degli Eterni Stranieri (Matteo Munari, Diletta Masetti, Giovanni De Giorgi, Luca Tanganelli, Elena Crucianelli, Zoe Zolferino oltre allo stesso Filiberti) a un fastidioso birignao, che, volendo, non è lontanissimo da quello del Wagner poeta ma che la musica del Wagner compositore riscatta e sublima.
Frantumata in una playlist curata da Stefano Sasso non solo wagneriana (Richard Strauss ma anche Benjamin Britten, Pëtr Il'ič Čajkovskij, John Dowland, Glenn Miller, George Gershwin e Artie Shaw per citare i più noti) la forza della musica si perde completamente e più che una riflessione sul mito wagneriano questo film risulta una proiezione compiaciuta delle pulsioni del suo autore. Una parabola sul nulla ma figurativamente elegante e straripante di parole.