Santa Cecilia riapre i suoi concerti al pubblico
Pappano e l’orchestra hanno offerto un’esecuzione particolarmente emozionante e coinvolgente della Patetica di Čajkovskij
Sarebbe stato un concerto normalissimo, se non fosse stato il primo a Roma con il pubblico in sala dopo più di sei mesi. E questo ne ha fatto un evento eccezionale, che era impossibile perdere. Andando verso il Parco della Musica la felicità era mescolata all’apprensione, perché questa non è la prima volta che ci si è illusi che il peggio fosse passato e quindi abbiamo ormai imparato a non fidarci degli annunci di vittoria sul virus. Entrando la felicità si trasformava in malinconia nel vedere la grande sala Santa Cecilia semivuota, ma il fatto che i cinquecento spettatori fossero per la grande maggior parte giovani volontari della Croce Rossa, che indossavano le loro squillanti tute rosse, era emozionante e consolatorio. Prima di iniziare, Antonio Pappano si è rivolto agli spettatori con il suo consueto “caro pubblico”, questa volta non per introdurre con qualche parola le musiche che avrebbe diretto ma per esprimere l’emozione sua e dell’orchestra nel tornare a suonare davanti al pubblico. Che non fosse un discorso di circostanza e che non ci fosse la minima retorica nelle sue parole lo confermava l’esecuzione della “Patetica” di Čajkovskij.
Prima si è ascoltata la Sinfonia in re maggiore Wq 183 n. 1 di Carl Philipp Emanuel Bach, il secondo figlio di Johann Sebastian ma il primo per la qualità della sua musica. Questa Sinfonia – che appartiene al gruppo delle sue ultime quattro, composte nel 1775-1776 – non ha certamente la genialità degli sviluppi, la splendida architettura e la varietà di colori delle contemporanee sinfonie di Haydn, ma è tutt’altro che gracile e banale, anzi ha idee originali e atmosfere Sturm und Drang. Ma non si può dire che sia stato possibile apprezzare pienamente i suoi pregi, perché la lotta fra la piccola orchestra e l’enorme sala era impari.
Senza intervallo si passava alla Sinfonia n. 6 di Čajkovskij, un cavallo di battaglia di Pappano e dell’orchestra, che l’hanno già eseguita varie volte a Roma e in tournée. La loro esecuzione è fissata anche in un cd, realizzato però quando Pappano non aveva ancora frequentato così spesso questa sinfonia e la sua interpretazione non aveva la sbalorditiva profondità che ha raggiunto ora. Quel che colpisce è la forza tragica che Pappano dà alla “Patetica”: anzi più che tragica questa “Patetica” è disperata, sconvolta, allucinata, quasi un’anticipazione di un’altra Sesta quella di Mahler, con la differenza che in Čajkovskij tutto è molto più soggettivo e viscerale. Dalla “raggelata solitudine” (cito dal bel programma di sala di Paolo Gallarati) dell’introduzione Adagio all’ “infinito nero” delle battute finali, la “Patetica” di Pappano sprofonda inesorabilmente nel pessimismo e nello sconforto più cupi e più totali. Evidentemente questo riguarda soprattutto i due movimenti estremi ma anche il secondo e il terzo movimento sono inquietanti: il secondo, una specie di valzer, è perennemente in equilibrio instabile e dà un senso di allucinata vertigine; il terzo, che sarebbe uno scherzo, si trasforma in una cavalcata demoniaca, in un vorticoso e orribile sabba infernale.
In una sala vuota molto probabilmente il direttore e l’orchestra non avrebbero suonato con così totale partecipazione emotiva - senza però lasciarsi mai trascinare dalla foga - e non avrebbero raggiunto questa terrificante forza espressiva, che ha toccato profondamente gli ascoltatori, rimasti in silenzio a lungo prima di esplodere in applausi calorosissimi, che inevitabilmente si disperdevano un po’ nella sala semivuota. Pappano ha chiamato a dividere gli applausi l’intera orchestra, applaudendo egli stesso il primo fagotto Francesco Bossone e il primo clarinetto Alessandro Carbonare, i cui soli nella “Patetica” rimarranno nella memoria.
Mauro Mariani
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