Gli omaggi della Biennale
La seconda parte della Biennale Musica 2020: i due leoni a Luis de Pablo e Raphaël Cendo, l’omaggio a Beethoven...
Anno strano questo 2020. Anno di pandemia, anno di grande incertezza, compresa nelle nomine dei nuovi direttori dei diversi settori della Biennale. E nell’attesa, si prosegue con i vecchi in regime di prorogatio. Esaurito il giro del mondo delle ultime edizioni, il direttore Ivan Fedele propone una Biennale Musica 2020 non priva di interesse ma della quale si fa fatica a seguire il filo per mancanza di una chiara direttrice. Come già notava Enrico Bettinello nella sua cronaca delle prime giornate, è soprattutto una lunga lista di nomi, alcuni dei quali sanno molto di atto riparatore per qualche distrazione passata, compresi quelli dei Maestri nello specchio retrovisore (definizione bettinelliana) destinatari di omaggi obbligati quanto di circostanza.
– Leggi anche: La Biennale e il retrovisore
Esemplare da questo punto di vista il bel concerto al Teatro alla Tese dell’Orchestra Haydn di Trento e Bolzano diretta da Timothy Redmond, che ha proposto tre lavori di ispirazione molto lontana firmati da tre personalità molto diverse del panorama contemporaneo. Fabio Nieder presentava in prima esecuzione assoluta Z truhle mojej prababky. Slovenské l’udové piesne che denuncia fin dal titolo il legame con la tradizione dei canti popolari slovacchi ma trattati in una complessa trama orchestrale di linee sovrapposte che restituiscono il caotico affastellarsi di suoni di una sagra di paese in un sofisticato impasto timbrico cui il cimbalom di Enikö Ginzery più che il canto di Sarah Maria Sun regala uno spessore etnico. Di Fabio Vacchi viene eseguito il Concerto per violino e orchestra “Natura naturans” del 2016 nella revisione del 2018, nei classici tre movimenti e una densa scrittura orchestrale di colorismo quasi debussyano che si apre a ritmi jazz nel più animato terzo movimento. Tocca punte di virtuosismo estremo la scrittura per il violino solista, risolta con tecnica robusta da Haruka Nagao. Chiudeva la serata il Concerto per flauto dolcedel 2010 di Dai Fujikura, dall’evidente e suggestiva ispirazione naturalistica che si coglie nel gioco di suoni dei registri dei tre flauti di Jeremias Schwarzer riflessi nell’articolato trattamento degli archi.
Si gioca anche di rimessa in questa Biennale Musica 2020 e si rischia poco, anche con la scelta del Leone d’Oro che al novantenne Luis de Pablo, descritto nella motivazione come il più grande compositore vivente e portatore nel suo paese “in un periodo politico difficile, di un’idea forte di libertà d’espressione non soltanto in campo artistico”. Per i lettori più giovani, si parla di Spagna franchista. Dopo la rituale consegna della statuetta all’editore (de Pablo comprensibilmente assente) e la proiezione del breve documentario Dejame hablar di Samuel Alarcón con protagonista il de Pablo di ieri e di oggi ma soprattutto i suoni creati nella sua pluridecennale produzione musicale, questa figura decisamente appartata nel panorama della produzione musicale contemporanea viene omaggiata con due composizioni nella solida esecuzione dell’Orchestra di Padova e del Veneto impreziosite dalla sensibile direzione di Marco Angius. In programma il Concierto para viola y orquesta del 2018, pezzo di ispirazione classica fin dalla divisione in tre movimenti “Rapsodia”, “Susurro” e “Melodías secretas”, interessante soprattutto per l’accattivante ispirazione lirica che si esprime attraverso i suoni della viola solista (che a Venezia era il dedicatario originale Garth Knox) più che per originalità di ispirazione e sviluppo orchestrale. A questo seguiva, Fantasías para guitara y orquesta del 2001, composizione programmaticamente guidata dall’intenzione dell’autore di trovare una “coesistenza pacifica” fra generi e stili, misuratamente citazionista nel rimando alla Fantasía IX di Alonso Mudarra ma solidamente ancorata alla tradizione iberica nel protagonismo della chitarra, strumento iconico nella produzione musicale spagnola, trattata con un periodare nervoso nel segno di un virtuosismo estremo ma piuttosto monocorde (a Venezia, la chitarra era quella di Thierry Mercier). Molti applausi dedicati anche al compositore portato virtualmente sul palco del Teatro alle Tese nell’immagine del manifesto srotolato dai due solisti della serata.
Dove volano i leoni? Quello d’oro in territori ampiamente esplorati mentre invece si avventura in zone (relativamente) meno frequentate quello d’argento. Il talento emergente premiato nel 2020 è Raphaël Cendo, che secondo la motivazione “ha inventato un nuovo modo, estremo, di pensare ma anche ascoltare la musica”, la cui summa è nel pamphlet Ars satura, manifesto estetico della sua musique saturée e lettura imprescindibile per chi creda in una musica che si spinga oltre le nozioni tradizionali di timbro, spettro delle frequenze, intensità e gesti strumentali. Visibilmente commosso e felice, alla concisa cerimonia di premiazione al Teatro alla Tese, Cendo parla con slancio di un premio che segna una “riconciliazione sociale, artistica e musicale” che deve seguire la fine di un processo epocale segnato da una deflagrazione politica e polverizzazione sociale di cui la pandemia è stata catalizzatore. Segue ringraziamento al personale medico e paramedico, veri eroi in questi tempi di pandemia, cui è dedicato il pezzo scelto dal suo catalogo per l’occasione. Si tratta di Delocazione del 2017 presentato in prima italiana dai quattro interpreti dei Neue Vocalsolisten e dal Quatuor Tana. Suoni rarefatti e estremi per il quartetto d’archi e parole decomposte in sintagmi al limite della percettibilità da testi Georges Didi-Huberman, Claudio Parmiggiani, Rainer Maria Rilkee Claude Royet-Journod per le 15 sezioni di questo lungo lavoro ai confini della musica e della parola laddove si intravvede l’abisso.
Inevitabile anche in Biennale l’omaggio a Beethoven nell’anno compleanno numero 250, la cui festa è stata in buona parte rovinata ovunque dalle vicende sanitarie. Al Piccolo Teatro dell’Arsenale l’omaggio è interamente affidato a tre concerti dei pianisti Leonardo Colafelice, William Greco e Pasquale Iannone in una formula – più interessante sulla carta che alla prova dei conti dell’esecuzione musicale – che mette a confronto la musica di Beethoven con quella di tre figure cardine della “contemporanea storica” (urge definizione appropriata per la generazione del secondo dopoguerra, da cui ormai ci allontana oltre mezzo secolo). Nel primo concerto, le fredde geometrie di cristallo dei Klavierstücke di Karlheinz Stockhausen si confrontano con il pianismo opulento di Franz Liszt della trascrizione della Quinta Sinfonia di Beethoven. Nel secondo, è il Pierre Boulez di Notations e la Sonata n. 1 a confronto con le Bagatelle op. 126 e le Variazioni op. 34beethoveniane, mentre nel terzo sono le 49 Françoise Variationen di Franco Donatoni a confrontarsi di nuovo con la versione lisztiana della Settima Sinfonia beethoveniana.
Se la lunga direzione di Ivan Fedele non si ricorderà per un particolare contributo al teatro musicale contemporaneo, non fa eccezione nemmeno questa Biennale Musica 2020. Del pur valido I Cenci di Giorgio Battistelli ha già scritto Bettinello, che non ha omesso di sottolineare trattarsi di un lavoro di 23 anni fa (che è pur sempre più recente della Maria de Buenos Aires del 1968 presentata in un paio di Biennali fa). In prima assoluta invece è stato presentato l’ultimo lavoro di Giovanni Verrando Instrumental Freak Show - A Manifesto on Diversity per voce, sei esecutori ed elettronica. Di non evidente classificazione, è probabilmente ascrivibile a un genere prossimo al teatro musicale o comunque a una musica che interagisce e si estende alle immagini video dello stesso Verrando con Michele Innocente e a una scenografia e design di Angelo Linzalata che inquadra vocalist e strumentisti dell’Ensemble Interface. Più evidente invece è l’intento sperimentale di un lavoro piuttosto ingenuo e disarticolato. Per la cronaca spicciola, il lavoro di Verrando ha causato la vivace contestazione del compositore Adriano Guarnieri presente in sala, che dal palco ha apostrofato il pubblico di incompetenza e la direzione artistica di spreco di danaro pubblico.
Decisamente più canonico il secondo lavoro proposto nella stessa serata dallo stesso Ensemble Interface in prima italiana, De près per 7 musicisti ed elettronica, composizione del 2014 firmata dal francese Jean-Luc Hervé, interessante soprattutto per la spazialità circolare creata dall’elettronica, che delocalizza il suono acustico dell’ensemble strumentale.
Quando meno te l’aspetti, arriva la sorpresa. E la sorpresa è arrivata quest’anno con i quattro lavori presentati nello spazio più raccolto delle Tese dei Soppalchi nell’ambito della Biennale College. Abbandonata (finalmente) la formula delle quattro opere brevi, in questa edizione si è puntato sull’elettronica live e il linguaggio video. Evidentemente più vicina alle corde dei nativi digitali, la nuova formula ha prodotto quattro lavori di ispirazione diversa ma riusciti nell’interazione fra suono e immagine. Particolarmente riuscita [nameless_remote_memory] del compositore Matteo Gualandie del video designer Silvio Petronzio, esercizio distopico sulla memoria nell’era digitale in cui la voce profonda del violoncello di Michele Marco Rossi si manifesta come lancinante richiamo di un suono ancestrale in una realtà di numeri e immagini confuse. Convince soprattutto per l’abile uso di immagini video e pennelli laser Perpetuo del compositore Matteo Tomasetti e del video designer Filippo Gualazzi ma più debole nel trattamento musicale per contrabbasso solo (di Filippo Angeloni). Di ispirazione meno originale è sembrato Morphology of a digital mouth del compositore Luca Guidarini e del video designer Andrea Omodei con gli esercizi vocali di Ljuba Bergamelli, mentre Habitat del compositore Francesco Pellegrino e del video designer Roberto Cassano autore di animazioni organiche reattive al suono del sassofono.
Resta da dire dell’affollato concerto fuori programma al Piccolo Teatro dell’Arsenale in memoria di Mario Messinis, due volte direttore della Biennale Musica dal 1979 al 1989 e ancora dal 1992 al 1996. Assenti (ingiustificati?) Luigi Nono e Bruno Maderna, figure cardine della sua attività di musicologo, erano legati alla sua attività di direttore artistico illuminato i cinque brani scelti per questo omaggio, che si apriva con Quintetto, Luoghi immaginari 1 di Fabio Vacchi, breve brano del 1987 dedicato a Messinis fatto di atmosfere sospese e morbide sonorità di sapore impressionista. Di atmosfera weberniana Vor der singendem odem di Alberto Caprioli, anche sul podio, che precedeva … l’alba dei suoni …di Adriano Guarnieri, anche lui sul podio, brano dalla crescente tensione drammatica, scosso dalla furia primordiale delle percussioni, che si placa in una calma solo apparente. Seguiva Zero di Michele dall’Ongaro prima del finale con Vite di suoni illustri di Claudio Ambrosini, brano di ispirazione originale nel gioco di rimandi a miniature di un immaginario catalogo di suoni celebri. Esecuzione impeccabile e emotivamente partecipata dagli strumentisti dell’Ex Novo Ensemble diretto da Claudio Ambrosini quando non cedeva il podio ai colleghi. Nel breve discorso introduttivo Ivan Fedele ne ha elogiato soprattutto la capacità straodinaria di cogliere nessi fra compositori e musiche all’apparenza lontani, e la generosità. Nel breve discorso introduttivo, Ivan Fedele di Mario Messinis ha elogiato soprattutto la generosità, la capacità straordinaria di cogliere nessi fra compositori e musiche all’apparenza lontani e nemico di ogni censura preventiva nella sua esperienza di direttore artistico di numerose istituzioni musicali. Di lui, mani salde al volante e un occhio allo specchietto retrovisore, mancherà l’abilità di guidarci sicuro fra paesaggi sonori scoscesi e ancora largamente inesplorati.
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