Provando a mettere un po’ di ordine in questi ultimi mesi ci si può stupire di come tutto sia successo velocemente, senza quasi lasciarci il tempo di riflettere: da un lockdown completo, senza prospettive sul futuro ma punteggiato di buoni propositi – «ne usciremo migliori», ma anche «è un’occasione per ripensare [inserire elemento da ripensare a scelta] – gli operatori si sono trovati quasi da un giorno all’altro a doversi inventare qualcosa per evitare di perdere del tutto la stagione, sfruttando il più possibile l’estate per timori di un nuovo lockdown.
Dai buoni propositi si è passati in molti casi al “salviamo il salvabile”, l’unica opzione per tenere in piedi una filiera che era già in grave affanno prima del Covid: festival ridotti messi su in pochi giorni, special edition, spazio agli artisti italiani, distanziamento, prenotazioni, distanziamento…
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Raccontare le programmazioni dei festival incentrando la narrazione sul «coraggio» e sull’«eroismo» come abbiamo tutti in questi mesi – anche a ragione per carità – ora non ha più molto senso, e sembra anzi quasi irrispettoso nei confronti dei molti “sommersi”. È ripartito chi ha avuto il “coraggio” di farlo, certo, ma anche chi ha potuto permetterselo. I molti che hanno chiuso o stanno fallendo perché impossibilitati a pagare le spese non hanno difettato di “coraggio” ma di mera liquidità, insieme alla angosciante mancanza di certezze a medio termine.
È ripartito chi ha avuto il “coraggio” di farlo, certo, ma anche chi ha potuto permetterselo.
È giusto allora fermarsi e provare a fare il punto, anche in considerazione dei (molti) mesi di incertezza che abbiamo di fronte a noi. L’occasione è la ripartenza, in queste settimane, di tre delle realtà più importanti della scena folk-world nazionale: Folkest, FolkClub di Torino e Premio Parodi. Una scena di nicchia, certo, ma che proprio perché è nicchia è un osservatorio privilegiato per raccontare problemi che sono comuni a tutti gli operatori che lavorano con le musiche “di qualità”.
Folkest, con oltre quarant’anni di storia in Friuli (ma con sconfinamenti nelle regioni vicine e in Slovenia) è il decano dei festival folk italiani ed è stato tra i primi a cancellare la programmazione. Dopo lo stop, i concerti sono ripartiti già il 30 luglio e gli eventi conclusivi – comprese le fasi finali del Premio Alberto Cesa, che ogni anno raccoglie le migliori nuove leve del folk e della canzone d’autore – si tengono in questi giorni a Spilimbergo, con chiusura il 5 ottobre al Teatro Miotto (tra gli ospiti, Elena Ledda con Mauro Palmas, Suonno d’Ajere, Francesco Giunta, Fanfara Station e Alessandro D’Alessandro).
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«Abbiamo deciso di rimandare tutto già il 15 marzo» spiega il direttore artistico Andrea Del Favero. «Ci siamo sentiti con la Regione Friuli Venezia-Giulia», che è lo sponsor principale di Folkest, «e il 20 marzo siamo usciti con il comunicato stampa. Chiaramente non sapevamo ancora quali sarebbero state le regole, immaginavamo che avremmo dovuto avere a che fare con realtà più piccole, limitando il numero degli spettatori, in luoghi facilmente controllabili. Non ci aspettavamo il distanziamento e i problemi che comporta».
Del Favero, che organizza Folkest dall’inizio, da quando ancora si chiamava Fieste di chenti, è – come molti operatori – piuttosto stanco. Da due mesi gestisce quasi un concerto a sera, con modalità che, se ormai sono date quasi per scontate, rimangono faticose per tutti. «Arrivi con le mascherine e lavori con le mascherine. Il gruppo arriva con le mascherine. Se ci sono due gruppi devi cambiare o sanificare il microfono. Quando arriva la gente devi misurare la febbre, prendere il nome, devi aver lavorato a monte sulle prenotazioni, di 80 che si prenotano 10 non vengono, e ci sono quelli che arrivano all’ultimo momento. Devi controllare il deflusso della gente, possibilmente avendo ingresso e uscita separata – cosa che non sempre si può fare nei teatrini dei paesi più piccoli. Alla fine si ricarica tutto sul camion e devi sanificare la sala… sperando che chi l’ha usata prima di te l’abbia lasciata sanificata. Si sono dilatati i tempi: si parte prima dall’ufficio o dal magazzino, si cena prima, anche per le problematiche dei ristoranti. Il positivo è che una volta finito si va a casa, anche perché non c’è modo di fare tanta vita sociale…».
L’esperienza di Folkest è simile a quella che riporta Elena Ledda, direttore artistico del Premio Andrea Parodi di Cagliari e presidente dell’associazione Elena Ledda Vox, con cui organizza il festival itinerante Mare e Miniere (con la direzione artistica di Mauro Palmas), da poco concluso in Sardegna. Anche Mare e Miniere si è trovato a riprogrammare tutto in corsa, «dopo che avevamo già confermato tutti i concerti e i seminari», spiega Ledda. «Il sistema di prenotazioni è stato devastante, faticoso. C’è stata grande difficoltà a far capire che ci servivano i numeri di telefono di tutti gli spettatori, che non si poteva prenotare per dei gruppi…». I concerti invece – ed è un elemento che riguarda anche Folkest – sono stati particolarmente affollati, «anche per un calo della concorrenza». «Questa è stata una stagione per chi aveva progetti. Hanno lavorato le associazioni che avevano la forza di proporsi in un certo modo, e che avevano un rapporto virtuoso con il territorio, che hanno saputo proporre contenuti originali».
«Questa è stata una stagione per chi aveva progetti. Hanno lavorato le associazioni che avevano la forza di proporsi in un certo modo, e che avevano un rapporto virtuoso con il territorio, che hanno saputo proporre contenuti originali».
Ancora in divenire è invece la situazione del Premio Parodi, previsto dal 5 al 7 novembre a Cagliari presso l’Auditorium del Conservatorio (che, per fortuna, garantisce gli spazi per il distanziamento, pena naturalmente una radicale diminuzione della capienza). Per il momento sono stati confermati i 10 finalisti e il Premio “Albo d’Oro”, che andrà alla violinista Anna Tifu. «Per gli ospiti, invece, è tutto fermo». Impossibile pianificare inviti dall’estero come avvenuto negli scorsi anni; e si aggiunga che la Sardegna obbliga anche gli ospiti italiani a prendere l’aereo, con tutto ciò che comporta.
Il problema, notano tutti gli interpellati, è che si tratta di una situazione di emergenza che non è gestibile a lungo termine, soprattutto per le realtà che devono ragionare sui biglietti di ingresso e che non dispongono – come Folkest e Premio Parodi – di contributi pubblici e di un rapporto solido con i piccoli comuni. «Si lavora molto di più per fare meno», spiega ancora Del Favero. «Certo non possiamo immaginare di durare due anni in questo modo. E in ogni caso non ritorneremo come prima, perché la situazione sarà peggiore. Una parte importante della filiera sarà saltata, dai piccoli service di zona ai piccoli locali. Ci sarà un maggiore accentramento dei grandi gruppi e delle multinazionali. Un mondo di capacità professionale, di piccoli imprenditori, di saperi rischia di sparire, e tutto questo porterà ad un aumento dei costi di gestione in futuro».
«Si lavora molto di più per fare meno. Certo non possiamo immaginare di durare due anni in questo modo».
«Io mi auguro che sia l’unica e l’ultima volta che lavoriamo così», concorda Elena Ledda. «Anche perché se manca il rapporto con il pubblico, si può anche chiudere». L’emergenza ha esposto in maniera drammatica i limiti strutturali del sistema-musica, che al netto delle molte iniziative d’urgenza ha dimostrato di essere troppo frammentato e privo di un vero potere di categoria, anche per l’oggettiva incapacità dei musicisti e degli operatori di coordinarsi “sindacalmente” a livello nazionale negli anni precedenti. Elena Ledda non risparmia una nota polemica: «La vera domanda è se questa emergenza ci abbia insegnato qualcosa. Secondo me no. Questo è l’anno in cui i musicisti dovrebbero dirsi “perché non mi metto in regola?” Per essere musicista devi esistere, devi pagare le tasse… Vogliamo essere trattati tutti uguale? Allora paghiamo le tasse tutti uguali. Se dall’anno prossimo si torna a lavorare in nero, anche le speranze di migliorare di tutta la categoria verranno meno».
Il caso del FolkClub di Torino è diverso, per molte ragioni. Intanto per il contesto: non un festival itinerante ma un locale ben radicato in una grande area urbana. «Il nostro vantaggio è stato», spiega il direttore artistico Paolo Lucà «di non avere attività da maggio in poi. Per cui abbiamo dovuto cancellare “solo” una decina di concerti. Fosse successo a inizio stagione sarebbe stato un disastro totale».
Lucà ha da poco annunciato la ripartenza della stagione fino alla fine dell’anno, con molti recuperi: si inaugura il 9 ottobre con LinguaMadre, nuovo progetto dedicato al Canzoniere italiano di Pier Paolo Pasolini, con Duo Bottasso, Elsa Martin e Davide Ambrogio; prima, gli eventi Torino Jazz Festival, ed è ancora difficile capire come sarà la ripartenza.
Il FolkClub si è costruito negli anni la fama di luogo speciale, in grado di attrarre musicisti di fama internazionale a cachet ridotti grazie alla particolare atmosfera da cave che i suoi circa 150 spettatori stipatissimi erano in grado di creare. La formula per cui il FolkClub è diventato il FolkClub, in sostanza, è esattamente quello che oggi non si può più fare. «Il lockdown ha bloccato tutto: non possono arrivare gli stranieri, non possono arrivare gli americani; magari domani saranno i bloccati i francesi. È una situazione che ci mette in gravissima difficoltà riguardo alla programmazione». E, appunto, «la cifra che ci ha sempre contraddistinti, l’idea della “comunione” tra artista e pubblico, è stata messa in discussione». Lucà è convinto che anche con la capienza attuale, ridotta a una cinquantina di spettatori, quella dimensione possa essere mantenuta. Il problema, naturalmente, è che non sembra economicamente sostenibile a lungo termine: «Sono quattro o cinque anni che abbiamo raggiunto il magico pareggio tra spese artistiche e sbigliettamento. Grazie ai biglietti copriamo cachet, spese, ospitalità… In questa stagione non succederà, anche se abbiamo ridefinito tutti i cachet alla luce della capienza ridotta».
L’estate ha concesso del tempo per ragionare e riorganizzarsi, e il FolkClub è stato restaurato e dotato di un sistema per trasmettere in streaming, ad alta qualità, tutti i concerti. È questa la grande scommessa per le prossime stagioni: «diventa anche una componente fondamentale, anche per definire i cachet: molti artisti e management hanno accettato una percentuale sui ricavi dello streaming».
Ci sono ovviamente molte incognite. Perché le persone dovrebbero spendere dei soldi (siamo intorno ai 5-8 euro a seconda dell’evento) per guardare un concerto in televisione? «Ci sono dei soci del FolkClub che hanno cancellato le prenotazioni per la nuova stagione alla luce del peggioramento della situazione. Hanno paura, guarderanno i concerti online. Una parte del pubblico non vede di buon occhio luoghi affollati, le code, le situazioni di promiscuità. Al di là che i contenuti siano o meno di grande livello, cambierà in generale il modo di fruire i concerti. E quando la situazione migliorerà non lo farà in modo uniforme. Tu ti sentiresti sicuro di tornare – pronti via – alla vita di prima? Ci sarà una zona grigia, di transizione, che potrebbe durare anni».
«Oggi l’esperienza concerto non è già più comunque quella di prima».
«Ci si può aspettare un rifiorire di impianti hi-fi, di tecnologie che permettano di ascoltare la musica in modo migliore» continua Lucà. «Magari i provider di internet forniranno una banda più larga per portare, oltre al video, anche l’audio a un livello di HD… Ci vorrà un attimo. Credo i numeri dello streaming tenderanno a salire. E che verranno premiati quelli che si stanno attrezzando per fornire un servizio di qualità». Certo, è un’idea che deve entrare nelle abitudini della gente: «Magari si arriverà però a un punto in cui, la sera, ci si vedrà a cena in famiglia mettendo il concerto del FolkClub in sottofondo».
È chiaro a tutti che uno streaming (per quanto ad alta qualità possa essere) non potrà mai sostituire l'esperienza di una serata in piazza, o in un club. E questo porta obbligatoriamente a interrogarsi su che cosa conti davvero in un live. «Ma oggi l’esperienza concerto – tra code, paura, termometri, distanziamento – non è già più comunque quella di prima», conclude Lucà. C'è da chiedersi se tornerà a esserlo.