Riscoprire Il trovatore a Macerata
Allo Sferisterio di Macerata il capolavoro verdiano in forma di concerto
Quest’anno il Macerata Opera Festival ha presentato un’opera e mezza, per così dire, ovvero il Don Giovanni in forma scenica e Il Trovatore in forma di concerto, che offriva allo sguardo appena qualche non indispensabile proiezione sul muro di fondo. Ma è un ottimo risultato, se confrontato ad altri festival, soprattutto al di là delle Alpi, che si sono subito arresi e hanno dato appuntamento direttamente al 2021.
Un’opera ricca di situazioni fortemente teatrali come Il Trovatore sembrerebbe destinata a soffrire pesantemente l’esecuzione in forma di concerto, invece la musica è già talmente drammatica di per sé da superare d’un balzo questa lacuna e imporre la propria teatralità, senza far rimpiangere troppo l’assenza della scena. Ma il pregio maggiore di un’esecuzione in forma di concerto è che, mettendo in primo piano la musica, permette di concentrarsi interamente sull’ascolto. Sul podio stava Vincenzo Milletarì, giovane ma non giovanissimo, già con esperienze in teatri importanti, soprattutto all’estero. Aver seguito un corso un corso all’Italian Opera Academy di Ravenna gli consente di presentarsi come allievo di Riccardo Muti. È chiaro che tra allievo e maestro qualche differenza c’è, ma l’impronta del maestro si avverte. Milletarì non si è posto davanti a questa partitura come se fosse un drammone grandguignolesco, non è andato alla ricerca dell’effetto ma ha colto la varietà, accuratezza e appropriatezza di colori della scrittura verdiana, ottenendo dall’Orchestra Filarmonica Marchigiana un suono pulito e calibrato, senza però cercare farfalle sotto l’arco di Tito ma sempre in funzione della risonanza emotiva della musica di Verdi. Condivisibili anche le scelte audaci dei tempi, dilatati e contemplativi nelle pagine liriche e vigorosi e scalpitanti nei momenti accesi da quelle passioni estreme e infuocate che sono proprie di quest’opera.
Complessivamente il quartetto dei protagonisti era pienamente all’altezza: d’altronde – come disse non ricordo più chi – fare Il trovatore è facile, basta avere le quattro migliori voci del mondo. Non esageriamo, forse non erano le migliori del mondo, ma sicuramente erano all’altezza del compito. Luciano Ganci non è il tenore eroico che si esigeva un tempo per Manrico, e per fortuna! Ha una voce schiettamente tenorile, ben timbrata e senza risonanze baritonaleggianti – ricordiamoci che Rodolfo Celletti definiva Manrico un tenore contraltino – ma chiara e limpida, duttile nelle fioriture di “Ah! Sì, ben mio” e sicura negli acuti della “Pira”: ringraziamo il cielo che non fossero acuti stentorei, perché da lì alle grida da cappone sgozzato – come Rossini definiva il do di petto – il passo è breve. Se gli si deve trovare un difetto è che canta Manrico più che interpretarlo.
Roberta Mantegna è un’ottima cantante e non sta al sottoscritto consigliarle il repertorio più adatto, che non sembra essere quello del soprano drammatico d’agilità e di forza, che ama frequentare. La tecnica e lo stile non le mancano ma il timbro puro e suadente è quello di un soprano lirico e non ha – non ancora – le risonanze vellutate e ombrose richieste da Leonora. Questo pone dei limiti alla sua interpretazione già nella cavatina e cabaletta d’entrata e ancor più nel successivo terzetto. Quando arriva a “D’amor sull’ali rosee” la voce mostra qualche segno di stanchezza, che si accentua nei duetti col Conte e con Manrico, nel successivo terzettino (il diminutivo suona beffardo) e nel finale.
Massimo Cavalletti ha voce ben impostata e bel timbro baritonale, insomma avrebbe tutto per cantare Verdi in modo adeguato, ma non sempre si ricorda che lo stile di Verdi è sempre nobile e qua e là – forse perché ciò risponde alla vecchia immagine del baritono “cattivo” – inserisce qualche accento trucibaldo, che un tempo si sarebbe definito “verista”. Queste cadute di stile lasciano interdetti ma non inficiano una prestazione complessivamente apprezzabile.
A non dimenticare mai la nobiltà dello stile verdiano era Veronica Simeoni: la sua Azucena avrebbe da sola giustificato il viaggio a Macerata. Eppure la sua voce non torrenziale e il timbro privo di risonanze scure non sembrerebbero ideali per questa parte, ma soltanto perché troppe volte l’abbiamo sentita da cantanti con un organo vocale possente, perfino troppo, che realizzavano un ritratto esagerato e caricaturale della zingara. Invece la Simeoni ha dimostrato in modo magistrale che interpretare una zingara non implica affatto un canto disordinato e incontrollato. Un’Azucena così non l’avevo mai ascoltata e c’è da sperare che sia presa a modello e apra una nuova epoca nell’interpretazione di Azucena.
Davide Giangregorio (Ferrando) ha realizzato più che bene l’introduzione, insieme al Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini”, che ha cantato questo quadro, molto spesso tirato via in modo sommario, con una finezza di colori e sfumature più unica che rara. L’eccellente lavoro del maestro del coro Martino Faggiani non era messo in discussione nemmeno da un vistoso ma in fondo piccolo incidente – un attacco sbagliato – capitato nel prosieguo dell’opera ad alcune voci del settore femminili.
Alla fine applausi calorosissimi per tutti, a conferma che una bella esecuzione in forma di concerto può compensare l’assenza della scena.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Il primo pianista francese a vincere il Čajkovskij di Mosca conquista il pubblico milanese con un interessante quanto insolito programma.
A Colonia l’Orlando di Händel tratta dall’Ariosto e l’Orlando di Virginia Woolf si fondono nel singolare allestimento firmato da Rafael Villalobos con Xavier Sabata protagonista