La Creazione di Manfred Honeck
Una splendida esecuzione dell’oratorio di Haydn offerta dal direttore viennese al pubblico di Santa Cecilia
Insieme a Temirkanov, Chung, Gatti e Gergiev, Manfred Honeck fa parte di quel ristretto numero di direttori d’orchestra che tornano ogni anno - o quasi - all’Accademia di Santa Cecilia per uno o due concerti. Sessantunenne, austriaco, ex violinista dei Wiener Philharmoniker, dal 2008 è direttore musicale della Pittsburgh Symphony, non molto considerata in Italia ma a lungo tra le migliori in America e ora da lui portata a nuovi splendori. Tranne che a Santa Cecilia, non viene spesso in Italia – ha diretto un paio di volte alla Scala e una al festival di Bolzano, ma posso aver dimenticato qualcosa – e il consiglio è di non perdervelo, se dirige non troppo lontano da voi.
A Roma è tornato per un capolavoro del classicismo viennese, La Creazione (Die Schöpfung) di Haydn, che la fece eseguire per la prima volta in pubblico a Vienna nel 1799, sigillando in maniera splendida un secolo ricchissimo di musica. Honeck non si è accostato a questa musica con criteri “filologici” (penso alle precedenti esecuzioni romane dirette da Gardiner e Jacobs) ma si è attenuto alla grande tradizione esecutiva viennese, scegliendo un’orchestra di ampie dimensioni, dal suono pieno ma incredibilmente trasparente, luminoso e flessibile, cosicché i minimi dettagli di questa magnifica partitura erano perfettamente percepibili, emergendo con un risalto e una precisione assolute, che si potevano credere raggiungibili solo con un gruppo cameristico. Chi si ostina a pensare a Haydn come a un compositore talmente regolare da essere prevedibile, si sarà così potuto rendere conto che nella sua musica fioriscono in continuazione idee nuove, originali e talvolta perfino bizzarre: provate a immaginare quel che succederà dopo due battute e vi accorgerete che non riuscirete quasi mai a prevederlo. Che meraviglia l’immagine della luna che con moto lento e dolce attraversa la notte silenziosa! E quella del volo superbo dell’aquila che s’innalza verso il sole! Haydn riesce a rendere indimenticabili queste immagini che sembrerebbero irrealizzabili con l’arte dei suoni, mentre è meno interessato all’imitazione dei suoni della natura e dei versi degli animali, di cui si compiacevano i musicisti del periodo barocco. Certamente anche qui, nell’aria di Gabriel, ci sono i cinguettii del flauto, ma è un cinguettio astratto, che non imita i vari uccelli elencati nel testo e si risolve in pura musica.
Ogni dettagli di quest’enorme affresco è inserito perfettamente nell’insieme e contribuisce alla misura, all’armonia e alla razionalità dello stile classico. E tutto questo era in piena sintonia con l’approccio di Honeck, che procedeva senza mai perdere di vista l’insieme a favore del dettaglio, senza strattoni nei tempi e nelle dinamiche, molto varie ma sempre molto controllate.
La prestazione dell’orchestra è stata superlativa. Sia il risultato complessivo - la precisione, la sicurezza e soprattutto la naturalezza – sia i dettagli – il suono caldo ma allo stesso tempo morbido e dai riflessi di seta degli archi e quello nitido e pieno dei fiati – mi hanno ricordato una certa orchestra viennese nelle cui file Honeck stesso ha suonato per alcuni anni: forse era un’allucinazione sonora, ma vi assicuro che ero perfettamente sobrio.
Ottimo anche il coro preparato da Pietro Monti. Man mano che si scendeva dalle voci acute alle gravi, i tre solisti di canto passavano dal buono al solamente corretto: erano il soprano Robin Johannsen, il tenore Maximilian Schmitt e il basso Tareq Nazmi.
Molti gli applausi e del tipo giusto, cioè calorosi, ma non isterici, che sarebbero stati assolutamente fuori luogo in un concerto come questo.
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