A volte l’aneddotica si confonde così bene con la realtà da aderire a essa come una seconda pelle, sottile e tenace. E quel punto l’aneddoto vale tanto quanto il frammento storico documentato, e funziona, il tutto, come una sorta di misterioso moltiplicatore di verità. Reali e supposte. L’aneddotica sulle origini del jazz a New Orleans spesso s’è rivelata più consistente di quanto generazioni sprezzanti di ricercatori abbiano voluto indicare, e perfino migliore delle fantasiose ricostruzioni dei laudatores temporis acti che fingono di conoscere un passato remoto del jazz che ci ha lasciato testimonianze lacunose, rivedute e corrette, a volte inesistenti.
C’è una figura, nella storia del jazz delle origini – poi divenuto jazz compiuto e realizzato, ma presto travolto dalla corsa dei tempi – che è stata letteralmente avvolta nella nebbia dell’aneddotica. Che celava dosi secche, quasi urticanti di realtà. All’anagrafe si chiamava Ferdinand Joseph Lamothe, creolo di New Orleans il mondo l’ha conosciuto, dimenticato, ritrovato già diverse volte con il soprannome diventato nome a tutti gli effetti di Jelly Roll Morton. Uno che aveva scritto sul biglietto da visita “Inventore del Jazz”. Quanto bastava per far venire il nervoso a diverse generazioni di colleghi e studiosi, per l’immensa supponenza di chi cotanto osava. Uno che aveva i diamanti incastonati negli incisivi, che vestiva come un piccolo lord, e che come tutti gli spacconi geniali e incontrollabili celava voragini di fragilità. Tant’è che morì povero e dimenticato, lui che aveva lustrato ori e argenti del jazz “delle origini”, fino a portarlo a livelli di quasi intollerabile luminosità.
Jelly Roll Morton fu una figura geniale ed eccessiva, nel quotidiano e nella musica. Non visse solo di musica, anche se avrebbe potuto farlo, fosse stato un po’ più accorto: invece il tavolo verde e assai poco chiari traffici con il mondo della prostituzione gli portarono via belle fette di tempo. E anche le questioni dei diritti d’autore. Morì che aveva nel cassetto nuove composizioni mai suonate dal vivo incredibilmente visionarie, vere anticipazioni della tumultuosa estetica di Charles Mingus, lui che aveva “codificato” il ricordo delle primigenie note di New Orleans eterofoniche. Un giorno le piste ormai dimenticate della musica di Jelly Roll Morton incrociano quelle di un giovane etnografo ed etnomusicologo, che aveva appreso il lavoro sul campo col padre.
Era Alan Lomax, figlio di John: una coppia che già aveva battuto in lungo e in largo gli States a caccia di testimonianze di blues, di country, di gospel, di tutto quanto era stato trascurato dalla borghesia rampante bianca, e invece era diventato oggetto d’attenzione per la sinistra “radical” che allora faceva proseliti tra gli intellettuali bianchi. Come John e Alan. Che si erano inventati uno studio di registrazione mobile decisamente all’avanguardia. Il jazz non era ancora oggetto di studio: erano gli anni del New Deal, lo Swing trionfante appariva come una sonora e pacchiana riscossa sonora contro la grande Crisi del ’29. Successe che il dimenticato Morton, nel marzo del ’38, sentì alla radio un programma in cui si definiva William Christopher Handy “inventore del jazz”. Prese carta e penna, scrisse a giornali musicali e no, rivendicò di essere stato lui la prima “coscienza” del jazz nascente. Alla fine la cosa arrivò alle orecchie di Alan Lomax, che andò a rintracciarlo a Washington, dove gestiva, mestamente, un bar con un pianoforte dove ancora qualcuno gli chiedeva di suonare uno dei suoi pezzo dimenticati. Ne scaturirono otto ore di conversazioni fitte ed esempi musicali, registrati da Lomax per la Library of Congress.
Un fiume in piena di notizie, retroscena, indicazioni e piste sicure per ricostruire la vera e propria mitogenesi del jazz: il leggendario Buddy Bolden, i pianisti di Storyville, l’avvento del ragtime, gli stili dei diversi pianisti mostrati direttamente sulla tastiera, la vera origine di "Tiger Rag", al di là delle millanterie della Original Dixieland Jazz Band. Una documentazione imponente, che finì anche in un libro di Alan Lomax massiccio per mole, agile nel fraseggio come le dita del pianista creolo: Mister Jelly Roll.
Grande assente nelle librerie italiane da quasi settant’anni, Mister Jelly Roll è ora riproposto da Quodlibet (368 pagine, 25€) con la traduzione attenta di Claudio Sessa, e una sagace (come di consueto) introduzione del musicologo Stefano Zenni. Che mette in luce anche omissioni e distorsioni dello stesso Lomax. Una lettura necessaria oggi come ieri, insomma, per capire, come da sottotitolo Vita, fortune e disavventure di Jelly Roll Morton, creolo di New Orleans, “Inventore del jazz”.