Maisha vs. Gary Bartz, generazioni a Roma

Gary Bartz incontra il nuovo jazz inglese dei Maisha al Roma Jazz Festival, e un cerchio si chiude

Maisha vs. Gary Bartz
Maisha
Recensione
jazz
Monk, Roma
Maisha vs. Gary Bartz
22 Novembre 2019

Si respira un’energia preziosa mentre Gary Bartz e i Maisha si preparano a salire sul palco del club romano Monk. Sembra che tutti abbiano assimilato la lezione di Mr. Bartz: «Music is My Sanctuary». Sarà lo spirito luminoso ed elegante del sassofonista di Baltimora a irradiare la scena, o il suono del suo strumento, o forse quel groove da spiritual jazz che contagia tutti gli altri musicisti. I loro dialoghi ininterrotti si accordando a quella forza stimolante, diventata collettiva e, traccia dopo traccia, si fa sempre più viva, esplosiva.

L’incontro musicale e generazionale tra Gary Bartz e i Maisha (in lingua swahili significa “vita”) ha un fascino misurato, procede a passi lenti, come quelli di un discepolo riverente di fronte alla scoperta dei segreti misteriosi del proprio maestro. Cresce progressivamente, prima di accendere il fuoco del motore sonoro, che parte da Bartz e dalla sua capacità unica di giocare con il suono, di inseguirlo, di calibrarlo al momento giusto. 

Durante il live del 22 novembre, in occasione del Roma Jazz Festival, ci ritroviamo nel pieno di un esperimento, dove s’incontrano il jazz, il funk e il soul e un mix rigenerante di blues, spiritual e onde ritmiche dell’afro-beat. Si lanciano sguardi curiosi e complici i cinque elementi dei Maisha (assenti al Monk la sassofonista Nubya Garcia, il pianista Amané Suganami e il percussionista Yahael Camara-Onono), giovane band inglese capeggiata dal batterista Jake Long, promossa dal collezionista di talenti Gilles Peterson.

Il live si apre con “Ju Ju Man” (Ju Ju Man / Love Song, 1976) e con l’omaggio esplicito a “A Love Supreme” di John Coltrane. Il suono solitario del sax di Bartz riempie la sala, mentre la sezione ritmica alimenta accordi eccitanti. La traccia è tratta dal suo terzo album, uno dei più noti della sua carriera da solista. All’epoca aveva un suono jazz molto più tradizionale, senza deviazioni verso l’avanguardia e il free jazz (come ai tempi degli NTU Troop, storica band del sassofonista americano). Questa volta, invece, nelle interferenze esuberanti dei Maisha, le linee burrascose del sax di Bartz si strutturano in un dialogo inedito. Il pianista Lyle Barton (un talento assoluto) lancia nello spazio vettori infuocati con le sue iperboliche improvvisazioni, protetto alle spalle dal percussionista Ernesto Marichales e da Long, che sembrano non aver paura di nulla. La voce vibrante della chitarra elettrica di Shirley Tetteh si libera completamente negli assoli, durante i quali è impossibile rimanere fermi (e lo stesso vale per gli spazi solisti del bassista e contrabbassista Twm Dylan).

Circola una carica che richiama gli anni Sessanta, le collaborazioni storiche di Bartz con Max Roach, Eric Dolphy, Charles Mingus, Art Blakey & The Jazz Messengers, fino alle scosse elettriche degli anni Settanta e all’approdo nel cerchio magico di Miles Davis. Con “Uhuru Sasa” (Harmel Bush Music – Uhuru, 1971) si raggiungono pianeti nuovi e il sassofono si prende il lusso di attraversare le vette più alte di catene sonore con salite e discese ripide. A seguire, con “Osiris” (tratto dal primo disco dei Maisha There is a Place, Brownswood, 2019) ci si immerge nelle acque limpide del cosmic jazz, in quell’atmosfera alla Sun Ra, alla Pharoah Sanders e, questa volta, il sassofono di Bartz spinge in direzioni contemplative, spirituali.

Con “Fantasy” (All 'N All, 1977) il suono schizza direttamente in cima alla piramide degli Earth, Wind and Fire, per arrivare più vicino alle simbologie metafisiche nascoste nel cielo. Nell’assolo di “Gentle Smile” (The Shadow Do!, 1975), il sax entra definitivamente nella nostra memoria, con quella sua melodia rassicurante, ammaliante. Nel brano inedito, composto da Bartz e Long, dal titolo emblematico “The Long Groove” i battiti ossessivi delle percussioni, il suono traballante della chitarra elettrica ci accerchiano come se volessero ipnotizzarci.

Arriva inaspettato anche un ricordo per il grande sassofonista e clarinettista americano Sidney Bechet con “Si tu vois ma mère”, prima di riprendere il flusso liquido con “Precious Energy” (registrato nel 1987 insieme a Eddie Henderson) e terminare con la spinta celestiale di “The Song of Loving-Kidness” (Coltrane Rules: Tao of a Music Warrior, 2012).

Alla fine del live si è chiuso un nuovo cerchio magico tra le due generazioni. La sperimentazione è riuscita e nell’aria resta quell’energia preziosa che avevamo respirato all’inizio.

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