I Tindersticks dall’iperspazio a Itaca

Il viaggio musicale dei Tindersticks, fra glamour ed esistenzialismo, nel nuovo album No Treasure But Hope

Tindersticks No Treasure But Hope - nuovo album
Disco
pop
Tindersticks
No Treasure But Hope
City Slang
2019

L’immagine di copertina del nuovo lavoro dei Tindersticks, undicesimo da studio in una serie avviata nel 1993, raffigura il profilo stilizzato di Itaca, dove da qualche tempo – non sappiamo se attirato dal mito odisseico o dalla bellezza naturalistica del luogo – ha preso dimora Stuart Staples: fondatore, cantante e principale forza motrice della band originaria di Nottingham, espatriato anni fa oltremanica per fare base nel borgo francese La Souterraine.

Sull’isola greca sono state abbozzate le forme del disco, come a Idra certe canzoni e poesie di Leonard Cohen: analogia per alcuni aspetti appropriata, considerandone la comune vocazione esistenzialista, alla quale nel caso specifico andrebbe associato tuttavia il misurato tocco glamour dovuto all’intonazione baritonale della voce da crooner, vagamente affine a quella di Bryan Ferry, e all’elegante manierismo degli arrangiamenti. È risaputo, del resto, che il suono dei Tindersticks esprime qualità evocative dalla naturale inclinazione cinematografica: prerogativa di cui si rese conto ben presto la regista parigina Claire Denis, avvalendosene in numerose circostanze, ultima delle quali è stata il suo primo film anglofono, High Life, con Robert Pattinson protagonista nei panni dell’astronauta Monte e impegnato inoltre nell’interpretazione di “Willow”, uno dei brani composti da Staples per l’occasione.

Niente di fantascientifico dentro l’album in cui – stando all’intestazione – il solo tesoro è la speranza, viceversa: il tono risulta anzi demodé, dall’iniziale “For the Beauty” all’episodio conclusivo che dà titolo all’intera raccolta, ambedue fatti di canto, pianoforte e poco altro, oppure nell’incantevole filastrocca mediterranea “See My Girls”, fra le pieghe vellutate di ”Carousel” e in “Pinky in the Daylight”: languido e crepuscolare valzer chiamato a illustrare i cromatismi possibili dell’amore.

In termini di slancio sentimentale non è da meno “The Amputees”, poiché la metafora della mutilazione – in un’emulsione di spleen creata da vibrafono e chitarra – allude alla perdita della persona amata: “Mi manchi così tanto”, ripete il refrain fino allo sfinimento.

Con scrittura garbata e maestria strumentale (merito del tastierista Dave Boulter e del chitarrista Neil Fraser, unici altri superstiti del nucleo originario), i Tindersticks prolungano una carriera onorevolissima inanellando una delle prove migliori di sempre: nulla di fenomenale, solamente buona musica.

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