Vagabon, una camerunense a NY
Il secondo album come Vagabon evidenzia il talento purissimo di Lætitia Tamko, tra #MeToo e echi africani
Originaria del Camerun, da dove emigrò adolescente con la famiglia verso New York, la ventiseienne Lætitia Tamko era diventata due anni fa un caso nel circuito dell’indie rock statunitense con l’acclamato album d’esordio Infinite Worlds, a nome Vagabon: raccolta di otto brani dalle qualità nitide, in genere fatti soltanto di voce e chitarra.
Dovendo dar forma al seguente, santificato dalla sussidiaria “avant-pop” della major Warner e intitolato semplicemente con il suo pseudonimo, Vagabon ha scelto di cambiare registro mettendo a frutto la dimestichezza con l’informatica maturata nel periodo trascorso a lavorare come tecnica di software. Accantonato l’archetipo da folksinger, ha creato musica al computer per mezzo di Logic Pro ottenendo risultati sorprendenti, soprattutto considerandone il profilo da completa autodidatta.
Registrato e prodotto interamente da lei, Vagabon è un saggio di straordinaria maturità: lo dimostra il modo in cui il canto limpido della protagonista si adagia con eleganza su un fondale di archi sintetici nell’iniziale “Full Moon in Gemini”, replicato poi all’epilogo in maniera differente – stile The xx – affidandone l’interpretazione a Sadek Massarweh dei Monako, band tedesca trapiantata in Canada. Ciò che impressiona maggiormente è la spontanea naturalezza della scrittura, evidente in “Flood” e “Water Me Down”, canzoni dal garbato portamento elettronico dove l’amore viene raffigurato con metafore acquatiche.
Se in quest’ultima si percepisce l’eco dell’R&B contemporaneo, in “Please Don’t Leave the Table” l’accento ostenta invece inflessioni soul, quando dall’aggraziato madrigale “In a Bind” affiorano viceversa tracce del continente di provenienza: tanto nell’arpeggio di chitarra, che rimanda – per ammissione della stessa autrice – al gigante del Mali Ali Farka Touré, quanto nello sbocco polifonico, verosimilmente memore della nonna, direttrice di un coro ecclesiale a Yaoundé.
L’episodio destinato a lasciare il segno più profondo è però “Every Woman”, ballata ad alta intensità emotiva ispirata alla poesia da Instagram di Nayyira Waheed nella quale Vagabon ammonisce con fierezza #MeToo: “Non abbiamo paura della guerra che abbiamo scatenato e siamo tenaci mentre vi teniamo tutti prigionieri”.
Nell’insieme – dieci pezzi per una durata poco oltre i 35 minuti – si tratta di un disco incantevole: testimonianza di talento purissimo.