European Jazz Conference, una questione di stile
Successo per la European Jazz Conference a Novara, che ha proposto un modo nuovo, e fresco, di raccontare il jazz italiano
In realtà Novara era già sulla mappa del jazz continentale “che conta” da tempo. Almeno da quando – ed è qualche anno ormai – Novara Jazz non è decollato imponendosi tra le programmazioni più originali in Italia. Ma essere «la capitale del jazz europeo», in effetti, è qualcosa che succede «Once in a life», una volta nella vita, come ha scritto il direttore artistico Corrado Beldì al termine dei quattro, intensi giorni della European Jazz Conference.
«Being the capital of European Jazz. Once in a life».
È un risultato di cui essere fieri per molte ragioni. La prima – la più ovvia – è che Novara non è Lisbona, Ljubljana, Wroclaw, Budapest o Helsinki, sedi delle precedenti conferenze. Non è una capitale culturale, non è una meta turistica; è una città piccola, con tutti i problemi che questo comporta nel gestire la logistica di un evento così complesso, dall’accoglienza alberghiera ai trasporti (oltretutto, con le iscrizioni andate sold out due settimane prima dell’inizio).
La seconda ragione, mi pare, è che la Conference ha saputo fare bene quello per cui era pensata, al di là dei momenti di networking degli operatori. Ovvero: raccontare, comunicare il jazz italiano.
LEGGI: l'intervista a Corrado Beldì
Quando si parla di comunicazione, si sa, lo stile è esso stesso contenuto, sostanza. La cosa che più saltava all’occhio della European Jazz Conference di Novara – se rapportata a decine di altri eventi di questo tipo – era proprio lo stile: come ci si è presentati, che immagine si è proposta di sé, come ci si è raccontati a un eterogeneo gruppo di professional internazionali, per lasciare qualcosa che vada oltre il generico ricordo dell’ennesima conferenza.
E lo stile parte dal biglietto da visita di ogni conferenza, ovvero la gift bag, che oltre alla istituzionale messe di volantini sul territorio, flyer, cd e mappe a Novara conteneva – ad esempio – una stilosa posata da gorgonzola e un’edizione speciale del Supplemento al dizionario italiano di Bruno Munari (meravigliosa antologia dei principali gesti con le mani tipici degli italiani, pubblicata per la prima volta nel 1963). Come dire, i cliché dell’italianità riletti ironicamente ma con orgoglio: ed è un tema chiave, visto che a essere messi in scena, a essere sotto esame nei quattro giorni novaresi, non erano solo gli organizzatori ma tutto il jazz italiano. Il quale, come sappiamo e come ci hanno detto otto tra i curatori che erano ospiti alla conferenza, fatica ancora a mostrarsi all’estero con una sua identità chiara oltre gli stereotipi, anche per il noto gap in termini di supporto pubblico che il nostro Paese paga nei confronti di politiche culturali più lungimiranti e a lungo termine.
Non si tratta di fare il solito elogio del genio italico e dell’italiana arte di arrangiarsi con fantasia, ma piuttosto di riflettere su un modo diverso di pensare il jazz – uno stile, appunto – che, almeno per il nostro Paese, sembra piuttosto nuovo: più cool, più giovane, più originale. Molto più interessante.
Non si tratta di fare il solito elogio del genio italico e dell’italiana arte di arrangiarsi con fantasia, ma piuttosto di riflettere su un modo diverso di pensare il jazz.
L’impressione generale dunque è di assistere a uno svecchiamento della scena, e il tempo ci dirà se Novara è stato un caso anomalo e isolato o la tappa di un processo di lungo periodo. Passeggiando per il foyer del Teatro Coccia in attesa dell’apertura sarebbe in realtà facile dimostrare (empiricamente) come l’età anagrafica media di molti operatori stranieri sia decisamente più bassa di quella degli italiani (del resto, in molti Paesi europei non è anomalo incontrare direttori artistici trentenni, o addirittura più giovani). E tuttavia, il jazz italiano per come lo si è visto alla European Jazz Conference è molto lontano da certe immagini un po’ polverose a cui siamo stati abituati. E non è solo questione, ancora, di come ci si presenta.
Si pensi, ad esempio, al tema del gender balance. Argomento spinoso, specie per quei generi (e il jazz è tra questi) il cui canone è evidentemente maschile, e specie per un paese come l’Italia in cui queste questioni vengono spesso risolte con una battuta. A Novara se ne è parlato seriamente nei panel, e si è mostrato nei fatti che è possibile – pur con le ovvia difficoltà – avviare delle azioni concrete: con gli inviti per i keynote speech (in cui spiccavano Du Yun e Tania Bruguera), nella scelta del comitato che presiedeva alla programmazione, con gli showcase. Sebbene non ancora alla soglia di quel 50 e 50 posto come obiettivo da molti, a Novara si potevano ascoltare i progetti di Ludovica Manzo e Alessandra Bossa (O-Janà), Rosa Brunello, Camilla Battaglia, Eloisa Manera, Federica Michisanti.
Oppure, a uno dei momenti più genuini e ben riusciti della prima giornata: il blindfold test condotto da Francesco Martinelli con cinque giovani musicisti (due uomini e tre donne: Eloisa Manera, Gaia Mattiuzzi, Ludovica Manzo, Andrea Grossi e Filippo Vignato), chiamati a commentare “al buio” pezzi (perlopiù rari e misteriosi) del jazz italiano, dall’Orchestra Ferrari a Massimo Urbani. Si è riusciti a raccontare – ancora: in uno stile nuovo, fresco – della vivacità di una scena, delle relazioni tra musicisti, delle filiazioni tra allievi e maestri; e si è riusciti ad aprire finestre su un passato del jazz italiano che, fuori dall’Italia (ma non solo) è appannaggio di pochi, almeno a giudicare dalle reazioni di sorpresa del pubblico in sala all’ascolto.
La scelta degli showcase e dei concerti (almeno per quanto posso testimoniare direttamente: ho potuto assistere solo alla giornata del 13) andava nella medesima direzione. A partire dal concerto di gala al Teatro Coccia, ben bilanciato nel doppio set tra la (giusta) celebrazione di Franco D’Andrea e Gianluca Petrella.
L’ottetto Intervals di D’Andrea – di cui abbiamo parlato a più riprese (qui e qui) – è una macchina complessa, che pesca tra generazioni diverse di musicisti e che restituisce una musica di solida complessità e grande fascino (purtroppo nella circostanza un po’ penalizzata dalla resa acustica troppo monodimensionale). Petrella, con la sua Cosmic Renaissance, ha offerto un live travolgente, tra ritmiche afro-funk ed elettronica. Sono due proposte molto diverse – cerebrale la prima, energetica la seconda – ma che condividono una certa idea avventurosa e poco canonica di quello che può essere il “jazz” oggi.
Idea che è emersa anche da molti showcase (almeno tra quelli che sono riuscito a vedere). Strabiliante la proposta di Hobby Horse: per l’energia, per come usa l’elettronica e soprattutto le voci (ne abbiamo parlato qui); bello il set del progetto Bread & Fox di Piero Bittolo Bon, autore di una musica complessa e fresca, che ha negli incastri tra gli ottoni (il trombone di Filippo Vignato e la tuba di Glauco Benedetti) il suo punto di forza. Interessante anche O-Janà, progetto ibrido tra una forma canzone destrutturata e tentazioni sperimentali, che affascina soprattutto quando lavora sulla canzone.
Insomma, si lascia Novara ottimisti, con l’idea che le politiche culturali e associative – e in questo un grande merito va, oltre a Novara Jazz, anche a I-Jazz per quanto ha saputo fare in questi anni – possono sortire degli effetti, se la direzione in cui si guarda è quella giusta.
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